In seguito gli accadde spesso di leggere sui giornali l'espressione "attacco improvviso", ma coloro che non avevano veduto i primi minuti di guerra erano in grado di immaginare tutta la forza di queste parole?
Nel corridoio correva gente mezzo svestita e vestita. Tutti facevano domande, ma nessuno sapeva rispondere. "Si sono incendiati i depositi di benzina?"
"Una bomba?"
"Manovre?"
"Sabotaggio?"
Un militare senza il cinturone sulla divisa, indicando il punto dove si trovava la città, disse:
"Compagni, guardate!"
Sopra la stazione e il terrapieno della ferrovia si levava­no verso il cielo, si dilatavano, si gonfiavano, enormi incen­di nero-sanguigni, esplosioni si susseguivano raso terra, e nel­l'aria rosea apparivano e volteggiavano neri aerei piccoli co­me zanzare.
"E' una provocazione!" gridò qualcuno.
Ma un'altra voce, che parlò in tono non troppo alto ma che tutti udirono, una voce che non più domandava, ma an­nunciava convinta la dura verità, proferì autorevole:
"Compagni, la Germania ha attaccato l'Unione Sovieti­ca. Tutti all'aeroporto!"
Novikov poi ricordò con particolare acutezza e precisione it momento in cui, avviandosi di corsa verso l'aeroporto insieme a tutti gli altri, s'era fermato in mezzo al giardi­no dov'era rimasto a passeggiare la notte prima. La terra, l'erba, le panchine, il tavolino di vimini sotto gli alberi, dove stava una scacchiera di cartone e le pedine sparpagliate dopo la partita...
Proprio in quell'attimo di silenzio, quando il muro di foglie gli fece schermo al fumo e alle fiamme, egli aveva provato una sensazione lacerante, quasi intollerabile per l'a­nimo umano, di un mutamento storico.
Era la sensazione di un movimento vertiginoso, simile a quella che potrebbe avvertire un uomo che tutt'a un tratto, con la pelle, con la vista, con il protoplasma d'ogni sua cel­lula sentisse l'orrendo moto della Terra in mezzo all'infinito dell'universo.
E quel mutamento ora sopravvenuto era irrevocabile e, benché soltanto un minuscolo millimetro dividesse ancora la vita di Novikov dalla riva che gli era familiare, non v'era forza capace di annientare quel punto morto; esso cresceva, si dilatava, si tramutava in metri, in chilometri... La vita e it tempo che Novikov sentiva ancora fisicamente come il suo vero tempo e la sua vera vita, in lui, dentro la sua coscienza, si erano già trasformati in passato, in storia, in ciò di cui poi si dice: "Oh, come viveva e pensava la gen­te prima della guerra..." E d'improvviso, da un avvenire confusamente intuito, il nuovo si trasformava in presente, nella sua nuova vita e nel suo nuovo tempo. In quell'istan­te egli pensò a Evgenija Nikolaevna e gli parve che il pensie­ro di lei l'avrebbe accompagnato in quella cosa nuova che era ormai arrivata...
Per abbreviare il tragitto verso l'aeroporto scavalcò una siepe e si mise a correre fra i filari di giovani abeti. Vicino a una casetta, dove forse abitava l'ex giardiniere del proprie­tario terriero, c'erano dei polacchi, uomini e donne, e, quan­d'egli passò di corsa davanti a loro, una voce femminile domandò avidamente, con una pronuncia aspirata:
"Chi è, Stasiu?"
E una squillante voce di bambino rispose:
"E' un russo, mamma," e aggiunse a mo' di spiegazione: "un soldato."
Novikov correva ansando, ripetendo quella parola che si era incastrata nella sua coscienza sconvolta:
"Un soldato russo, un russo, un soldato russo..."
E in quella parola c'era per lui una specie di risonanza nuova, amara e orgogliosa, felice e strana nello stesso tempo.
II secondo giorno di guerra i polacchi non facevano che dire:
"Russi uccisi... russi partiti... russi passato la notte..."
Nei primi mesi di guerra si esclamava con amarezza: "Eh, noi russi... Sistemi russi... Il nostro fatalismo russo... Il russo 'forse...' Le strade russe..." Ma queste amare de­finizioni che crescevano nell'anima di Novikov insieme con il dolore della grande ritirata, con l'amarezza, con la pena, si facevano anche parte integrante del suo destino, della sua vita, si riempivano di linfe, si saldavano con un'infinità di legami alla sua anima e alla sua coscienza, stavano in attesa del trionfo militare, del proprio passaggio nel positivo op­posto.