Circa 80.000 morti e 50.000 feriti: questo è il bilancio della disastrosa Campagna di Russia pretesa da Mussolini. Abbiamo voluto rivivere questo pezzo della nostra storia con un reduce messinese, Trento Malatino. Figura di intellettuale ed educatore che è stato e rimane nell’animo di tanti suoi studenti e concittadini anche un maestro di vita.

 

Professore dove si trovava quando ha saputo che sarebbe dovuto partire per la Russia?

Eravamo tornati dalla campagna di Iugoslavia e ci trovavamo a Roma. Io facevo parte dell’81° Fanteria, in qualità di aiutante maggiore in seconda. Era l’inizio dell’estate; ci riunirono in cortile e ci fecero un discorso enfatico, dicendoci che in Russia ci saremmo dovuti distinguere, che noi ufficiali in fondo eravamo dei volontari …

Eravate davvero volontari?

Macché volontari! Usarono una di quelle frasi oblique, di circostanza, “come se foste volontari”. Ci dissero di portare la grande uniforme, la sciarpa azzurra. La guerra lampo dei tedeschi avrebbe dato solo il tempo di arrivare a Vienna e poi saremmo tornati. Invece arrivammo in treno in Romania settentrionale e i soldati cominciarono a chiederci con franchezza: “Perché ci fanno venire qua? Cosa ci hanno fatto i russi?”

Lei cosa pensava di questa guerra?

Quello che pensavo non potevo dirlo apertamente; ma io, come tanti altri, in questa guerra non credevo. Era una guerra di rappresentanza politica da parte di un esercito che non era in grado a migliaia di chilometri di distanza di impegnarsi in un’attività militare che non fosse distruttiva per se stessa.

Parliamo un po’ del nostro esercito, come si preparò a questa nuova campagna?

Noi partimmo per la Russia col nome di CSIR – Corpo di Spedizione Italiana in Russia. Il nostro fu detto Corpo d’armata auto-trasportato. Ma a partire dal confine rumeno-russo ci siamo dovuti sciroppare 2000 Km a piedi. Fu così che la definizione del Corpo venne ritoccata in “auto-trasportabile”

Riguardo agli armamenti?

Il nostro armamento e tutta la struttura organizzativa militare era quella delle divisioni di fanteria della prima guerra mondiale, né più né meno. Semplicemente c’erano nuovi tipi di mitragliatrici, che erano le Breda 33, più efficienti rispetto alle vecchie Fiat 35, che a quelle temperature non potevano funzionare. Nel complesso eravamo fanterie ben adatte a continuare la prima guerra mondiale.

Quale è stato il primo impatto con la “terra nemica”?

Mi ricordo che incrociammo una colonna di ebrei che venivano deportati dai tedeschi. All’improvviso vidi tirar fuori da un carro un corpo rigido, di pietra; una vecchia morta che fu abbandonata ai bordi della strada.

Avete operato soprattutto in Ucraina; come venivate accolti dalla popolazione locale?

Con benevolenza. I soldati si comportavano bene. Arrivavamo nei villaggi e subito a tavola, tutti quanti: la famiglia russa e noi. C’erano i nostri esperti nel fare le tagliatelle …. Si mangiava insieme, tranquillamente.

Non c’erano manifestazioni di ostilità nei vostri confronti? In fondo eravate degli invasori.

Quasi mai.

E qui il professore pesca nella sua memoria diversi episodi, immagini, che ritraggono e fissano nel tempo momenti di vita condivisa al di là dei “fossati” che il conflitto voleva scavare. Soldati italiani che giocano a carte con prigionieri russi, un nostro soldato ammalato affidato per lungo tempo alle cure premurose di un medico locale, l’abbraccio all’ufficiale Malatino, appena ferito in combattimento, da parte di una donna piangente che ha il figlio che combatte poco distante dalle parte opposta. Testimonianze di fraternità che contrapposte ai sacrifici e alle sofferenze (basti solo pensare alle temperature glaciali) cui erano sottoposti i nostri soldati, facevano ritornare in tutti la domanda: “Ma perché ci hanno portato qua? Cosa ci ha fatto questa brava gente”?

Professore, ha raccontato dell’episodio dei nostri che giocavano a carte con i prigionieri russi. In generale qual era l’atteggiamento nel nostro esercito nei confronti dei prigionieri?

C’era un problema: noi non avevamo i mezzi per tenerli, l’organizzazione dei campi di concentramento, e i comandi li spedivano verso i tedeschi: non c’era altra soluzione.

Il che purtroppo significava il più delle volte andare incontro alla morte. Secondo documenti ufficiali tedeschi (del 1° maggio 1944), dal 1941 erano stati fatti prigionieri 5.700.000 soldati sovietici. Di essi almeno 3.200.000 morirono.

A questo proposito – ricorda il nostro interlocutore – lo stesso Stalin fece un ordine del giorno in cui, oltre alle ottime capacità di combattente delle truppe italiane, dette rilievo al loro comportamento umano.

Ha notato nella popolazione dei sentimenti antigovernativi?

Sì, una volta una bidella mostrandoci i ritratti di Lenin, Stalin e Voroscilov, dell’ultimo si manifestò entusiasta, del primo meno e bocciò Stalin senza mezzi termini.

Ritorniamo all’esercito italiano. Qual era l’atmosfera che si respirava? In che misura era penetrato dagli ideali fascisti?

L’esercito italiano non fu completamente penetrato dal fascismo, dall’ideologia, da quella specie di fanatismo popolare che si era manifestato specialmente dopo la campagna di Etiopia. C’era qualcosa che faceva sì che il nostro fosse l’esercito del Re, l’esercito che veniva dal Risorgimento.

Noi eravamo tutti ispirati dalle guerre risorgimentali e pensa … dovevamo combattere a fianco dei tedeschi! Ma noi questi tedeschi non li potevamo sopportare. Fin dalla scuola elementare eravamo stati imbevuti dell’amor patrio che si contrapponeva all’invasore austriaco, tedesco.

Con quale animo ritornò a casa?

Già come studente universitario avevo cominciato a dare sviluppo alle mie riflessioni critiche sulla società. La dittatura fascista non era una dittatura integralmente totalitaria come il nazismo; si aprivano delle maglie. Io per esempio a Messina frequentavo la libreria Ferrara (dove era fra l’altro impiegato Giuseppe Saitta che darà poi vita all’OSPE) e vi ricevevo la rivista I problemi del lavoro, che dava un quadro oggettivo della situazione socio-economica in Europa. Erano presenti insomma  in me già quei germi, che al ritorno dalla Russia, nel momento di un necessario giudizio finale, diventarono d’orientamento socialista.

Dopo 50 anni, cosa gli rimane di questa Russia?

Un grande amore per quel paese. Un ricordo di affettuosità, cordialità. Devo dirti una verità. Io personalmente non ho mai voluto usare un’arma contro un russo. Non toccava a me usare i fucili mitragliatori; come ufficiale avevo solo la pistola. Ma anche quando ci trovammo a stretto contatto col nemico, non  ho mai ucciso.

 

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Pubblicato per la prima volta su “L’isola” il 12/5/1995.

Disponibille anche la versione in russo (traduzione dall'italiano di A. Voitenko)