TU PUOI

di Andrej Ghelasimov

 

La gente non dovrebbe imbottirsi la testa di sciocchezze. Mia moglie me lo ripete in continuazione. Si chiama Lenka, età 34 anni, occhi castani, ama i cannoli, la nazionale italiana di calcio e i soldi. Non mi ha mai messo le corna, o perlomeno non me l’ha mai confessato. Chi lo sa cosa si tengono dentro. La farei fuori seduta stante. E insomma, le cose vanno bene, tiriamo a campare. Capita pure che ci si diverte. Lei crede nei soldi come crede in Dio. «Non ti imbottire la testa di sciocchezze», mi dice. Vorrei proprio sapere di cosa dovrei riempirmela allora! Per esempio, me ne sto seduto e penso quanti anni ancora potranno mai durare le sedie. Intendo, non solo le sedie in generale, ma quelle sedie che non hai comprato tu stesso; cioè, quelle che hai ricevuto dai genitori, dagli amici. L’inizio della vita familiare. Del resto, cos’altro si dovrebbe regalare a un matrimonio? Cioè, quanta parte della tua vita puoi passare seduto sulle sedie per le quali non hai tirato fuori un soldo? Qualcosa come quindici anni. Quindici anni seduto su sedie regalate, due figli, una bella ulcera gastrica, ferma antipatia verso qualsiasi tipo di dirigenza, ogni rapporto con i vecchi amici ormai defunto da tempo, e aggiungiamoci anche l’abitudine di odiare tutto il parentado. E poi pensi sempre che la vita è appena iniziata.


Del tutto casualmente mi sono imbattuto nelle foto degli anni di scuola. Aljoška, l’amico più indimenticabile (perché mai poi abbiamo litigato? Saranno almeno sette anni che non ci vediamo), sta in piedi accanto a una ragazza. Un insensato amore di scuola. Una maturazione sessuale. Una ragazza da una famiglia assolutamente di sinistra. Gli insegnanti erano categoricamente contrari. Non penso fossero preoccupazioni di ordine morale le loro: più che altro li infastidiva la mésalliance. Inoltre cercavano l’armonia sociale. Sfortunatamente lei è rimasta incinta. Questo finalmente fece riprendere i sensi ad Aljoška. Niente suicidi, né aceto, né pillole. Le compagne di classe, in cucina, spalancavano gli occhi, ma finì tutto senza clamori: un aborto e la sensazione di polvere grigia tutt’intorno. Come quando ti trovi sotto un cielo nuvoloso e non hai idea di quando ritornerà bel tempo. Viva la vita adulta. Questo però sulle foto non si vede. Se ne stanno lì in piedi, sorridenti. Il vento le scompiglia i capelli. Sono appena usciti da scuola. “Ultima campanella”. In quell’occasione mi fece un segno con la mano e mi disse: «Togli il coperchio dall’obiettivo. Scemo che sei, hai dimenticato di toglierlo».
Faccio un conto. Salta fuori che sono passati diciassette anni da quel momento. Cosa diavolo succede al tempo?
Comunque stiano le cose, le sedie non ne ricavano alcun giovamento.
«O ne compri di nuove oppure non so cosa succede», urla Lenka dopo che è rovinata a terra quando all’ultima sedia è saltato via lo schienale. «I bambini potrebbero farsi male. Ne abbiamo tutti piene le scatole della tua macchina!». È chiaro che i bambini non si farebbero male su queste sedie: sanno già benissimo che non devono appoggiarsi allo schienale. È la loro mamma che è invece maldestra. A scuola avrebbe dovuto seguire più spesso le lezioni di educazione fisica. Forse, adesso, non sarebbe stato neanche necessario mettersi a dieta.
«Non urlare», le dico, «Cosa c’è da sbraitare? Che c’entra adesso la macchina?»
«Ti ho detto mille volte: compra delle sedie nuove. La scorsa settimana anche tu per poco non cadevi»
«Devo cambiare il parabrezza»
«Mi hai stufato con questa tua macchina!».
Il giorno dopo andiamo a berci una cosa per festeggiare l’acquisto delle sedie nuove. «Non sarebbe meglio andarci a piedi?», mi propone Lenka. «Non è che una passeggiata di dieci minuti». E mi guarda con occhi innocenti. Io penso, e vada per la passeggiata, certo non farò una scenata per una stupidata.
«E perché cavolo l’ho comprata? Per poi mangiare la polvere in giro a piedi per la città?» «Ma vai al diavolo! Volevo solo proporti di farci una passeggiata».
Poi, per tutta la sera, spacca la testa ai Semënov sul nostro prossimo viaggio in America. Moriva dalla voglia di farli crepare d’invidia. Quelli, però, non ne vogliono sapere di crepare e cambiano sempre discorso. Lenka diventa nera di rabbia e si fuma una sigaretta dietro l’altra. Poi lascia intenzionalmente cadere la cenere sulla tovaglia. Quando i Semënov si stancano della sua insistenza, cominciano a tossire e a guardare l’orologio.
«Ebbene», alla fine la mia Lenka decide di gettare la spugna, «si è fatto tardi. È ora di rientrare. I bambini non amano rimanere troppo tempo da soli. La prossima volta verrete voi da noi. Venite, così provate le nostre nuove sedie»
«Ma certo», sorridono i Semënov, «non mancheremo di venire».
«Teste di cazzo!», sbotta Lenka quando siamo in strada
«Smettila di dire parolacce. E se poi stanno affacciati al balcone e sentono tutto?»
«Teste di cazzo», ripete, ma questa volta senza punto esclamativo
«Andiamo a piedi?», faccio io, «mi sembra che abbiamo esagerato con i bicchierini»
«Hai paura? Perché cavolo siamo venuti qui in macchina allora? Mi hai proprio stufato con questa macchina»
«Sei ubriaca»
«E tu invece?»
«Anch’io sono ubriaco»
«E i tuoi Semënov sono delle teste di cazzo»
«Non sono i miei»
«Anzi, meglio, Semënov è una testa di cazzo e la tua Semënova una vacca»
«Lei non è la mia»
«Non urlare. Cos’hai da sbraitarmi addosso!»
«Andiamo a piedi?»
«Vai al diavolo! Guido io. Dove sta questa cazzo di macchina?»
«Eccola. E non gridare neanche tu. E scordati di metterti al volante»
«Ma vai al diavolo tu e la tua macchina. Con tutti i tuoi Semënov»
«Non sederti davanti. Magari poi vomiti»
«E se vomito? Poi pulisci tu. Te la lecchi tutta fino a farla splendere, la tua macchina»
«Allaccia le cinture»
«E che ti sei comprato una formula uno?»
«Cinturati, ti ho detto, e finiscila con le chiacchiere. Mi distrai»
«Ne ho abbastanza della tua macchina»
«Chiudi lo sportello»
«L’ho già chiuso»
«Vedi che la luce non si è spenta? Significa che il tuo sportello non è chiuso bene»
«Beh, allora scendi e chiudilo tu stesso»
«Se poi cadi fuori, non sarà certo colpa mia»
«Tu non hai mai colpa di nulla: sono sempre gli altri i responsabili»
«Ti riesce di stare un po’ zitta? Andrò a sbattere contro qualcosa, è sicuro»
«Ma se non sei in grado di sbattere in maniera normale. Ma dove vai?… Fermati!», urla d’un tratto con tutta la voce che ha in gola.
Faccio una brusca frenata, ma ormai è troppo tardi. Per inerzia, la macchina slitta in avanti e tampona il lato sinistro di un’auto di marca straniera di color beige.
«E allora, bello?», mi dice dopo qualche istante un caucasico che si è avvicinato, «scendi che ci facciamo due chiacchiere». Io non ho nessuna intenzione di scendere. Lui resta lì in piedi, chinato sul mio finestrino, sbirciando nello spacco del vestito di Lenka. Lei, di tutta risposta, sorride con fare adulatorio.
«Scendi bello», ripete, «c’è gente che ti aspetta».
Nell’auto sono seduti altri tre uomini e tutti e tre guardano verso di noi.
«Va bene», rispondo e scendo goffamente dall’auto.
«Adesso vedremo se tutto va bene o meno», mi fa un caucasico che mi sta alle spalle.
«Io mi ricordo di te, come no», mi dice uno quando mi ci siedo accanto sul sedile posteriore dell’auto. «Abiti nella casa accanto alla mia». Lo guardo in faccia e mi rendo conto che anch’io conosco lui. Nella casa di fronte alla nostra vivono dei caucasici: non si sa se commerciano o se fanno altro.
«Che ne dite di chiamare la polizia?», dico tentando di sedermi un po’ più comodamente nello spazio angusto, «che se ne occupino loro»
«A che serve chiamare la polizia», cantilena il mio “conoscente”, «dici che non ce la facciamo a metterci d’accordo da soli?»
«In che senso?»
«Ma in tutti i sensi, bello. Perché dare soldi alla polizia? Hanno già un buono stipendio» «Perché, dobbiamo forse pagarli?»
«Ehi, bello, perché parli di soldi, non siamo mica al mercato! Non sei mica venuto da noi a comprarti un macchina»
«No, certo, ma…»
«Non devi aver fretta. Adesso tornatene a casa, riposati, fatti una dormita e resta tranquillo. Domani ne riparliamo. Adesso hai bevuto troppo, a che ti serve la polizia?»
«Ve bene», dico, «allora ci vediamo domani. Abito al numero…»
«Non ti preoccupare, bello, ti troviamo», mi batte la mano sul ginocchio, «vai a casa».
«Cosa ti hanno detto?», per l’impazienza la voce di Lenka si è fatta rauca
«Mi hanno detto di non preoccuparmi»
«Come sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire così. Mi hanno detto di tornarmene a casa e di dormire»
«Che vadano al diavolo», aggiunge, «sono solo degli imbecilli!».
La mattina seguente vengo a sapere che non sono affatto degli imbecilli.
«Sono dei delinquenti», mi dice tranquillo il mio amico benzinaio, «vengono da me ogni giorno a fare rifornimento. Delinquentelli come ce ne sono tanti, solo che adesso si trovano nei pasticci»
«Sì, infatti, li ho tamponati ieri io a due isolati da qui»
«Macché, non sono mica questi i loro problemi. Sono in pieno regolamento di conti con altri malviventi. Sono già due settimane che la polizia gli dà la caccia»
«E il tamponamento?»
«Quelli non sono problemi loro: sono problemi tuoi. Cosa faranno con te? Con i tuoi soldi si compreranno una macchina nuova e ci faranno un po’ di soldi»
«Ci fanno un po’ di soldi?»
«Perché, tu al posto loro non avresti voluto tirar su un po’ di soldi?»
Mi viene di pensare che ho appena buttato inutilmente soldi in sedie.
«Niente è inutile», dice Lenka. «Almeno saprai su cosa metterti la bara».
Mi guarda negli occhi e subito aggiunge: «Scherzo. Non capisci quando si tratta di uno scherzo?»
«Sai una cosa Lenka», dico tranquillo, «forse per te può anche essere divertente, ma per me non lo è affatto. In questo momento me la sto letteralmente facendo sotto dalla paura. Non voglio avere a che fare con nessun delinquente e voglio partire per l’America».
«Non c’è problema, bello», mi dice il mio “conoscente” caucasico, entrando in casa da noi e sedendosi sul divano, «comprati la nostra macchina e vai, che so, in Honduras»
«Ma io non voglio andare in Honduras», rispondo, «e non voglio neanche la vostra macchina. È vecchia e il bagagliaio di sicuro è sporco di sangue»
«Ehi, ma che sangue! Di che stai parlando? Noi vendiamo videocassette, non carne».
La parola “carne” non mi piace.
«Dacci cinquemila dollari e la macchina è tua»
«Cinquemila dollari?!! Ma è un vero rottame! Chi si comprerebbe un rottame per cinquemila bigliettoni?»
«Guarda che sino a ieri, quando ci hai sbattuto, non era affatto un rottame»
«Sbagliato»
«Sbagliato cosa?»
«Così non si dice in russo»
«Ehi, che fai il professore?»
«Si dice fino a quando non ci hai tamponati».
Lui sorrise e mi guardò negli occhi.
«Vuoi che parli correttamente la tua lingua?»
«Mi piacerebbe»
«Non ti piace la gente di nazionalità caucasica?»
«Per me non fa differenza».
Il sorriso gli sparisce dalla faccia.
«Domani fatti trovare pronto con i soldi. Alle sette. Non chiamare nessuno».
Uscendo, si volta e aggiunge: «Tua moglie è bello, molto. È corretto così?»
Quella non era la prima ragazza che il mio amico Aljoška si faceva a scuola. Prima di lei era successo altro. Niente di piacevole, bisogna dirlo, ma questo è già un altro discorso. Io non ero mai riuscito a capire tutta questa assurda storia. Voglio dire che i ragazzi si fanno amici, se ne vanno in giro, ascoltano musica, iniziano a bere vodka, tutto all’insaputa dei genitori, vanno in discoteca, si fanno delle idee proprie sulla vita, sull’amicizia tra maschi, pensano che possa durare in eterno, e poi all’improvviso, hop, spunta una ragazza. Questo proprio non mi ci entra in testa. Cioè, in teoria sarebbe tutto chiaro: le cose devono andare così, cioè, tra ragazzi e ragazze. Fin qui tutto ok. Poi, però, per qualche ragione, c’è sempre qualcosa che va storto.

O forse per gli altri è tutto a posto. Che uno, dall’oggi al domani, si innamori e per una qualche malsana idea pensi che solo lui possa innamorarsi così e comincia a farsi vedere in giro e a mostrare a tutti con quale bella ragazza si è messo e, soprattutto, quale bella ragazza si è innamorata di lui. E la sensazione è quella che, insomma, tutti gli altri siano degli scemi e che in genere nessuno capisce niente, e che visto che sei il primo a innamorarti è come se avessi scoperto l’America. Nel senso che dopotutto a Colombo nessuno contesta i diritti di questa scoperta. Qualsiasi babbeo sa che l’America l’ha scoperta Colombo, grande e ardimentoso navigatore. E se lui non l’avesse scoperta, nessuno sa in che mondo vivremmo tutti adesso: cioè, niente rock and roll, niente Hollywood, niente Charlie Chaplin, insomma un cazzo di niente. Staremmo seduti a sbavare tutti solo per una cacchio di arte antica. Lui, però, l’ha scoperta e adesso tutti lo sanno. Prendi un qualsiasi studentello fumato, sveglialo e vedrai che ti dirà: «L’America l’ha scoperta Cristoforo Colombo, il famoso, grande e ardimentoso navigatore». Insomma, l’ha scoperta e basta. E grazie a te, Dio. Prendi sempre lo stesso studentello e chiedigli: «E perché allora l’America non si chiama, che ne so, Colombia? Questo è un altro posto. E decisamente più piccolo. Perché quest’America l’hanno chiamata America? Chi è questo furbetto che si è dato subito da fare?». E a quel punto uno studentello qualsiasi non ti risponderebbe. Perché evidentemente ancora non sa che c’è sempre qualche furbetto che di nome non fa Colombo, ma che per qualche motivo dà il nome a tutto un nuovo continente. E tutti i problemi dello studentello non derivano dal fatto che non conosce la storia o la geografia. No. Il fatto non è questo. Semplicemente è ancora molto giovane e, fortuna sua, ancora non sospetta che la gente non aspetta altro che il momento giusto per fregare qualcun altro alla grande. Questo, però, succedeva molto tempo fa… Non parlo della storia di Colombo adesso. La cosa più strana è che sono proprio gli amici a comportarsi così con te. A dire il vero, con Aljoška ci siamo separati molto più tardi. Neanche ricordo per quale motivo.
«Lui certo non si rifiuterà di darti una mano», mi dice Lenka. «Lui è uno della mala, lo hai detto tu»
«Finiscila di rompermi le scatole!», faccio io, «quando dico no è no! Non sarò certo io il primo a chiamarlo»
«Ma se ti chiama ogni sei mesi e tu costringi i bambini a mentire facendogli dire che non sei a casa» «Finiscila di rompere! Mi fa male la testa»
«Tra poco non ti farà più male»
«E io che c’entro adesso? È di te che il caucasico va pazzo. Prima di tutto si prenderanno te»
«Stronzo!»
«Ho detto che non gli telefono. È probabile che il suo telefono sia pure sotto controllo»
«Delinquenti come il tuo Aljoša in città ce ne sono a milioni. Se dovessero mettersi a sorvegliarli tutti, la compagnia dei telefoni smetterebbe di servire la gente normale»
«Non gli telefono!». Dopo quindici minuti Aljoška stava seduto sul mio divano. Nello stesso posto in cui prima si era seduto il caucasico.
«Hai fatto bene a chiamarmi. Vedrai che risolveremo la faccenda».
Una volta rimasti soli in auto, restiamo per un po’ in un imbarazzante silenzio.
«Senti, mi vuoi dire per quale motivo te la sei presa tanto con me?», dice alla fine lui «Io non ce l’ho con te. Da dove ti viene questa?»
«Come sarebbe che non te la sei presa? Ma se non vuoi parlare con me! Ti nascondi da me»
«Non mi nascondo da te»
«Ma dai, finiscila. Sono passato da te chissà quante volte e tu non c’eri mai»
«Sono molto impegnato con il lavoro. Adesso mi mandano in America»
«Ma finiscila! L’ultima volta ti ho visto sul balcone e invece Lenka mi ha detto che non eri in casa. Cosa ti ho fatto?». Smette di guardare la strada e si volta verso di me.
«Fai attenzione», dico io, «o investiamo qualcuno»
«Come vi vanno le cose in generale?»
«Bene. Serjožka ha iniziato la scuola»
«Ma che mi dici? E quando?»
«L’autunno scorso»
«Cazzo, come passa il tempo. Io invece ho avuto una bambina. Daška»
«Auguri»
«Grazie. È una bambina così divertente. Gattona già con il sederino all’insù e sporca dappertutto».
All’improvviso mi sento veramente contento per il fatto che ha avuto una figlia e che si rallegra quando la ricorda.
«Auguri», ripeto ancora una volta
«Senti, forse te la sei presa perché a suo tempo ti ho dato i soldi?»
«Chi è che se la prenderebbe per una cosa simile?», dico io, ghignando
«A quel tempo facevo lo sborone. Volevo che tutti vedessero quanti soldi avevo e tu invece te ne stavi lì seduto come un parente caduto in miseria. Non avevi neanche di che pagare il taxi»
«Per il taxi ne avevo»
«Vabbè, dai, finiamola qui »
«Ti dico che per il taxi ne avevo», ripeto
«Ma quanto potevi mai avere? Una volta non saresti neanche venuto al ristorante se non avessi pagato io per te»
«Non ti avevo chiesto io di venire a prendermi. Avevi organizzato tutto tu»
«Significa che mi hai messo il broncio a causa di questa storia? Non ci parliamo da sette anni per colpa di un ristorante scadente?»
«Non ti ho messo il broncio: è solo che non ho tempo. Devo star dietro alla mia carriera». Se ne sta ancora un po’ zitto.
«Forse per il viaggio a Leningrado?»
«No, macché viaggio»
«Allora forse a causa di quelle ragazze?»
«Quale ragazze?»
«Non ti ricordi, quelle venute con noi in aereo a Soci?»
«E che c’entrano?»
«Gli raccontai un sacco di balle su di te». Gli si accende un sorriso imbarazzato in faccia. «Me ne fregavo altamente di quelle ragazze»
«O forse a causa di mia madre?»
«Senti, basta», lo interrompo. «Dacci un taglio. Non ce l’ho con te. Semplicemente il tempo passa, molte cose cambiano e si comincia ad avere un atteggiamento diverso nei confronti di molte cose del passato». Rimane in silenzio.
«Anche nei confronti dell’amicizia?»
«Non lo so», dico, «forse sì, anche nei confronti dell’amicizia. Insomma, quando arriviamo?» «Ecco ci siamo». Svolta sotto un piccolo arco e dopo un istante frena e si ferma.
«Racconta per filo e per segno come sono andate le cose. Io ti aspetto qui». Non mi è mai capitato prima di dover parlare con un boss mafioso. Mi sento un po’ nervoso e le mani mi si coprono subito di sudore. Fortuna che nessuno ha voluto salutarmi con una stretta di mano. Evidentemente gli estranei non li salutano così. E poi sai che schifo sarebbe ricordare come mi sono avvinghiato con le mani appiccicaticce a dei mafiosi fieri e coraggiosi.
«Problemi?», mi chiede l’uomo che si è presentato come Nikolaj Semënovič. Indossa un costoso completo sportivo a righe rosse e beve succo d’arancia. Penso che forse fa jogging e che potrebbe essere appena tornato da una corsa allo stadio. Chi li conosce questi boss mafiosi, chi lo sa che abitudini hanno. Oppure, può anche darsi che sia il direttore dello stadio di cui sopra. Per farla breve, non mi porge la mano.
«Beh, sapete, i caucasici non mi danno pace», dico, tentando di asciugarmi il palmo sudato della mano sulla superficie interna della tasca. E se poi, quando ci salutiamo, all’improvviso gli viene voglia di stringermi la mano?
«Capisco», dice con molta concentrazione annuendo, come se stessimo parlando di scarafaggi e lui, da perito del servizio di disinfestazione, fosse stato chiamato per annaffiare di ddt un appartamento abbandonato. Penso che, in fin dei conti, siamo tutti rozzi razzisti.
«Quanto le chiedono?»
«Cinquemila»
«In rubli?»
«Non l’hanno specificato»
«Allora significa in rubli. Quando si faranno vivi?»
«Hanno detto domani alle sette»
«Bene», annuisce e velocemente mi spiega cosa è necessario fare.
«La cosa principale è che non devi avere paura», aggiunge quando ci stiamo salutando. «Di recente hanno avuto qualche regolamento di conti fuori città. Due di loro sono stati fatti fuori. Per cui adesso non faranno molto rumore. Devono restarsene buoni buoni o li mettono dentro. E poi anche in Cecenia se la stanno vedendo brutta con la guerra. Quindi vai a casa e dormi sonni tranquilli»
«Grazie», dico e aspetto nel caso mi porga la mano. La mia adesso è bella e asciutta.
«Dai, fila. Che aspetti? Domani ci mettiamo d’accordo».
La mattina seguente porto Lenka e i bambini dalla madre e mi metto ad aspettare. Il tempo scorre con terribile lentezza. Verso le cinque suonano alla porta.
«Sei tu Emel’janov?», mi chiede un tipo con una giacca di pelle e pantaloni sportivi. Dietro ce n’è un altro vestito alla stessa identica maniera.
«Sono io»
«Questo è per te. Puoi anche non contarli». Mi porge sulla soglia della porta una federa di cuscino rigonfia sino all’inverosimile.
«Grazie», replico. Chiudo la porta e torno nella sala. Appoggio la federa direttamente sul pavimento. È la prima volta in vita mia che ricevo a casa una somma simile. La prima volta che ricevo soldi da mafiosi. La prima volta nella vita che ricevo soldi in una federa. Forse sarebbe il caso che esprima un desiderio. Mi siedo sul divano e guardo il bianco sacco rigonfio. Sopra ha dei timbri d’ospedale. Dentro c’è una somma di denaro talmente grande che alla mia famiglia basterebbe per un anno intero. Anche senza lavorare: facendo solo quello che ci piace e sputando in faccia agli stronzi. Forse, alla fin fine, Aljoška non è stato così scemo a scegliere questo lavoro. Allungo la mano verso la federa e ci do un’occhiata dentro. Sono tutte banconote russe di taglio non superiore a dieci rubli. Probabile che li abbiano raccolti al mercato. Chiudo la federa e mi metto ad aspettare. Il tempo scorre con terribile lentezza. Ho la sensazione di avere la nausea. Alle sei e mezza suonano di nuovo alla porta. Questa volta c’è solo un uomo, ma sempre in giacca e pantaloni sportivi. Che è successo, sono tutti impazziti per lo sport?
«Nikolaj Semënyč aspetta di sotto», mi dice
«Aha», mi affretto a rispondere e lo seguo.
“Nikolaj Semënovič” sta discretamente fumando sul sedile posteriore di una Žiguli bianca, vecchio modello. Al volante è seduto uno degli “sportivi” che mi hanno portato la federa.
«Allora, hai capito come devi comportarti?», mi dice Nikolaj Semënovič emettendo una nuvola di fumo profumato. «Non consegnare i soldi per nessun motivo. Tienili finché ti è possibile e daglieli solo se proprio ti mettono alle strette»
«Capito», rispondo pronto. «Non dare i soldi. Tirarla per le lunghe»
«Bravo, hai capito tutto». Mi fissa.
«Hai paura?».
Non mi viene subito in mente cosa rispondere.
«Beh, ho paura, forse. Prima di oggi non…»
«Hai mai avuto a che fare con la mala?», finisce lui al posto mio con un ghigno
«Beh, no…»
«Facci l’abitudine. Potrebbe sempre tornarti utile»
“Preferirei di no”, penso, ma rimango in silenzio
«Sali a casa e aspetta lì. Io intanto rimango qui». Alle sette in punto suonano alla porta tre volte. Sbircio dalla finestra e mi assicuro che la Žiguli sia ancora al suo posto. All’altro lato del cortile c’è la macchina straniera nera. Accanto a essa vedo due uomini di razza caucasica.
Fumano entrambi e guadano in direzione delle mie finestre. Alla porta suonano ancora una volta. «Guarda, qui con me», dice il “mio” caucasico quando alla fine apro la porta, «ho una cosa molto utile. Adesso farò il bravo. Adesso dirò solo cose carine alle ragazze».
In mano ha un manuale di lingua russa per le medie.
«Un bel libro», continua lui. «Lo sai che differenza c’è tra la funzione del soggetto e quella del predicato nelle proposizioni impersonali?».
Lo guardo senza dire una parola.
«Non lo sai? Ehi, non va mica bene così. È la tua lingua. Come puoi non sapere cose talmente importanti? Vieni con me e per strada ti spiego tutto». Scendiamo in giardino. Passando accanto alla Žiguli, mi accorgo che è vuota.
Mi si forma una spiacevole sensazione di freddo nello stomaco.
«Dunque, bello», mi dice lui appena saliamo nella macchina nera. «Non esiste nessuna differenza tra le due funzioni. Mi segui? Nessuna. Nelle proposizioni impersonali semplicemente non c’è soggetto. Capisci? Non ci sono persone. La persona manca. Io sono un soggetto e anche lui è un soggetto», dice, indicando l’uomo al volante. «Nelle proposizioni impersonali non ci sono soggetti. Mancano. Come se nessuno fosse responsabile. Intendo proposizioni del tipo: “si fa sera”, oppure, “oggi ha fatto buio presto”, oppure, “ieri ha fatto freddo” eccetera. Mi segui?».
Annuisco.
«Bravo. Vedo che capisci. Però esistono costruzioni totalmente differenti. Per esempio: “un uomo ha alzato il gomito, si è messo al volante e ha tamponato la macchina di qualcun altro”. Questa già non è più una proposizione impersonale. In essa c’è una persona. Capisci? In essa c’è un soggetto. Ed esso ha la sua funzione. Chiaro? E adesso dimmi, quali funzioni pensi che il soggetto abbia in questa proposizione?»
«Non ho i soldi». Il caucasico mi guarda, tira un profondo sospiro e scuote il capo in segno di disapprovazione.
«No, caro mio, hai bisogno di studiare ancora. La funzione del soggetto non ti è ancora chiara. Vuoi che ti regali questo libro? Il problema è che hai poco tempo. Neanche tu sai quanto poco tempo hai. Forse non ne hai per niente»
«Non ho fatto in tempo. Mi serve ancora qualche altro giorno. Ho già chiesto prestiti in due o tre posti»
«No, questa non mi sembra una risposta esatta. Rischi di farti bocciare all’esame. Fino a quando non avrai imparato la funzione del soggetto, non sarai in grado di passare alla categoria grammaticale del futuro. Hai capito? Il problema, del resto, sta tutto qui. Potrebbe anche non esserci un futuro. Hai idea di cosa potrebbe essere la tua lingua madre senza tempo futuro? Non potresti dire cose semplicissime come “presto andrò in America” oppure “quest’estate vivrò in una dača”, oppure ancora più semplicemente: “quest’estate vivrò”. Capisci? La tua lingua si impoverirebbe molto senza tempo futuro e tu parleresti come un qualsiasi faccia di terrone caucasico. Perché i caucasici per la maggior parte non parlano correttamente. Giusto? Qualche tempo fa proprio tu te la sei presa per questo motivo»
«Ho bisogno di un altro paio di giorni. Dammi ancora un po’ di tempo»
«E studierai il russo?»
«Non più di due giorni». Rimane un minuto in silenzio e poi mi porge il manuale.
«Prendi. Voglio che tu tenga questo libro. Tra poco dovrai dare l’esame».
Non appena sono fuori della macchina, fanno inversione e se ne vanno. Passa un minuto e mi si avvicina “Nikolaj Semënovič”.
«A cosa ti serve questo?», chiede indicando il manuale
« Sarebbe troppo lunga da spiegare»
«Dammi qua». Prende il libro che ho in mano e lo sfoglia.
«Non c’è niente qui dentro»
«Lo so», dico, «e non deve esserci nulla lì dentro»
«Ah sì?», dice fissandomi. «Strano… Comunque, lasciamo stare. Cosa ti hanno detto?»
«Mi hanno dato altri due giorni»
«Bene». Estrae dalla tasca una piccola ricetrasmittente e a voce bassa vi dice dentro: «Ritirata». Non appena termina di pronunciare la parola, sbucano subito fuori cinque o sei macchine da vari angoli. Non ho mai pensato che nel mio giardino potessero entrare così tante automobili.
«Insomma, ti saluto», mi dice quando tutte le macchine hanno fatto inversione e sono ripartite,
«forse ci rivedremo ancora»
«E io che devo fare adesso?»
«Studiati il russo», se la ride
«Macché, parlo seriamente».
Rimette a posto la ricetrasmittente e mi sorride.
«Non devi fare nulla. Non si faranno più vivi»
«Come sarebbe che non si faranno più vivi? Ma se mi ha detto che sarebbe tornato tra due giorni»
«Quello che ha detto non conta molto. Vogliamo vedere? Quanto ci scommetti?». Quanto ai caucasici, “Nikolaj Semënovič” si è dimostrato profetico. Fortuna che a suo tempo non ho fatto scommesse con lui. O almeno, all’inizio la pensavo così e cioè che mi era andata bene. Per farla breve, nessuno di quelli si è fatto vivo né dopo due giorni, e nemmeno dopo quattro. Dopo poco, sono andato a riprendermi Lenka e i bambini dai nonni e abbiamo iniziato con tutta calma a prepararci per la partenza per l’America. È stato solo al decimo giorno che si sono fatti vivi. Ossia, è arrivato il mio cosiddetto “conoscente”, da solo.
«Vieni con me», mi dice quando io, senza sospettare nulla, gli apro la porta. «Andiamo, ho la macchina di sotto».
Lo seguo come mi trovo, in calzoncini corti, T-shirt e ciabatte.
«Sali dietro», mi fa. «Mi siedo anch’io lì». Al volante non c’è nessuno. Evidentemente è venuto solo.
«Allora, bello, nonostante tutto sei andato a reclamare?»
«Io…»
«Non c’è bisogno di dire niente. So tutto di te. Ti conosco come le mie tasche. Come del resto conosco tutta la tua famiglia. Anche un bambino capirebbe quello che fate. Non riuscireste a farla neanche a un moccioso».
Sento che emana un forte lezzo di alcol.
«Vuoi un po’ di cognac?», mi dice tirando fuori una bottiglia. «È un cognac molto buono. In Russia non ne fanno di così buono. E neanche in Europa. Può darsi solo in Francia. Bevi, è cognac fatto in casa. Me lo hanno spedito da casa. Bevi, oggi ti servirà». Gli prendo la bottiglia dalle mani e mi faccio un sorso. Non sento nessun gusto.
«Ti piace? Non esiste cognac migliore». Anche lui ne beve un sorso, posa la bottiglia a terra e estrae una pistola dalla cintola.
«Paura?».
Io lo guardo senza dire nulla.
«Non aver paura, non è niente di terribile. Tu hai figli, no? Quindi non devi avere paura. Anch’io ho figli: due maschi. Quindi non ho mai avuto paura. Se muoio, non succederà nulla di terribile. Me lo dico sempre. Perché loro sono nati. Loro ci sono già: camminano, parlano, amano. Anche loro avranno a loro volta dei figli. Mi segui? È cosa buona e giusta quando c’è un padre e ci sono dei figli. È così che deve essere. Così ha voluto Dio. Ci credi in Dio?».
Annuisco lentamente.
«Bravo. Anche questo ti tornerà utile».
Con la coda dell’occhio cerco di vedere se c’è qualcuno nelle vicinanze della macchina. Il giardino è assolutamente vuoto.
«Prendi la bottiglia, bevi il mio cognac».
Io ubbidisco e ne prendo una bella sorsata.
«Bravo. Ti piace il mio cognac?».
Annuisco.
«E il manuale che ti ho regalato, l’hai imparato?».
Lo guardo senza parlare.
«Non l’hai imparato», dice lui sospirando. «Adesso non è più importante… Su voi russi, non ci si può proprio fare affidamento. Avevi promesso di preparare i soldi in due giorni»
«Li ho preparati»
«Li hai preparati?», si volta velocemente verso di me. «Ah, ma che bravo. Allora portameli subito»
«Li avevo preparati una settimana fa, come mi avevi chiesto. Li ho avuti esattamente due giorni dopo la nostra conversazione»
«Li avevi tutti?»
«Tutti fino all’ultimo copeco»
«E adesso?»
«Adesso non li ho più».
Tira un sospiro profondo e resta silenzioso forse per un intero minuto.
«Tu non sei venuto dopo due giorni», dico per interrompere il suo silenzio
«Ho avuto dei problemi. Con voi russi ci sono sempre problemi. Ti hanno mai ammazzato un amico?»
«No»
«Ecco, vedi. Come fai a sapere quali sono i veri problemi?». Resta ancora un po’ in silenzio.
«Allora, facciamo così. Torno da te domani, alla stessa ora, e tu mi riprepari i soldi. Adesso ne ho più bisogno che mai»
«Per domani non faccio in tempo»
«Questi sono affari tuoi. Se non farai in tempo ti faccio fuori»
«Come sarebbe a dire: mi fai fuori?»
«Molto semplice: ti sparo in testa e tu muori. Per sempre. Non esisterai più»
«Aspetta, aspetta un attimo. Tu però non sei venuto a prenderti i soldi quando io ti aspettavo»
«Ti ho detto che avevo da fare»
«Ma non farò in tempo…»
«E tu cerca di riuscirci. Anche perché è nel tuo interesse. Per me non fa differenza se rimani vivo o no, mentre per te è molto importante. Se non mi fai trovare i soldi, per me non cambia nulla: non li avrei comunque. Mentre per te cambierà tutto. Quindi puoi vederla così: lavorerai per te stesso. Io qui sono quasi fuori dal gioco. Sono le circostanze che si sono messe così. Poteva andare diversamente. Personalmente, io non ho niente contro di te. Semplicemente le cose sono andate così, che tutti e due abbiamo problemi e che il tuo problema sono io. Mi capisci?»
«’Fanculo», sbotto io
«Ehi, che sono queste parole!», mi dice rimettendosi la pistola in tasca. «Meglio se te ne torni a casa e chiami i tuoi amichetti. Che ti portino loro i soldi. Solamente non chiamare Nikolaj Semënovič. Io non starò certo ad aspettarlo, ma tu dopo questo non ti credere di continuare a vivere. Capito?». Mi da una pacca sulle spalle.
«Sei un bravo ragazzo: vedrai che ci riuscirai. Fila a casa».
Mi spinge quasi fuori dell’auto.
«Che gli venga un colpo a questo tuo caucasico», urla Lenka quando le racconto quanto è successo.
«Dargli tutti questi soldi? Ma che schiatti pure!»
«Che colpa ne ho io?», dico. «Perché mi urli contro?».
«Ah, sì? E con chi dovrei prendermela? Il tuo caucasico se n’è già andato via»
«Domani torna. Puoi dirglielo personalmente. E poi perché ti scateni? Tanto comunque i soldi non sarebbero nostri. Cosa ti cambia a chi dobbiamo darli?». A queste mie parole, lei sembra in qualche modo calmarsi subito e inaspettatamente. A volte non riesco proprio a capirla: e quando smania come un cane rabbioso, e quando si calma d’un tratto come agnellino. So solo che è meglio non parlarle di soldi, di nessun tipo di soldi: sono discorsi che la fanno montare su tutte le furie.
«Guarda, guarda», mi grida quella stessa sera mentre si sta guardando il suo programma preferito Pattuglia stradale. «Brigati, vieni a vedere. Quello non è il caucasico che è venuto da te?». Guardo lo schermo televisivo e penso a quanto possano essere curiose le circostanze di cui oggi mi ha parlato “l’ospite” caucasico. Quale strana e inattesa piega può prendere una situazione che, a prima vista, può sembrare senza uscita.
«Non è lui?», chiede Lenka con malcelata contentezza, «È lui, no? Proprio lui?»
«Sì, è lui», dico io, esaminando bene il viso morto dell’uomo che, solo qualche ora prima, si era definito il mio peggior problema.
«Dio sia ringraziato!», esclama Lenka. «Dio sia ringraziato! Guarda come si è spalmato. È finito nella corsia opposta, il farabutto. Sicuramente era ubriaco fradicio»
«Aveva un cognac molto buono»
«Come?», mi guarda come se non avesse capito
«Aveva dietro un cognac molto buono»
«E tu come lo sai?»
«Ho bevuto con lui»
«Ah sì?», mi guarda per un secondo. «Bene, che vada al diavolo. Povera la macchina: guarda come si incartata».
Evidentemente anche “Nikolaj Semënovič” sta guardando la tv quella stessa sera. Dopo neanche due giorni Aljoša viene a farci visita.
«Allora? Il problema si è risolto, no?», dice allegramente quando ancora non ha varcato la soglia. «Hai visto? E tu che ti eri preoccupato. Te lo dicevo io che tutto si sarebbe risolto»
«Già, è tutto a posto», rispondo, «adesso è tutto a posto»
«Puoi tranquillamente prepararti per andare nella tua America»
«Prendi un tè con noi?», interviene all’improvviso Lenka. Mi sorprendo della sua ospitalità, lei che di solito non vede di buon occhio gli ospiti. Del resto, era forse ben contenta che i mafiosetti caucasici avessero finito di importunarci.
«Ma certo», sorride Aljoša, «avete marmellata?». Ce ne restiamo seduti in cucina per due ore, chiacchierando del più e del meno, ricordando ogni possibile sciocchezza divertente successa a scuola e durante gli anni dell’università. Aljoška se la ride alla grande e ci racconta di sua figlia. È cambiato durante questi sette anni che non ci siamo visti. Non ne riconosco più il viso. Di tanto in tanto, quando, secondo una vecchia abitudine che aveva a scuola, reclina la testa per guardare in alto prima di rispondere a una domanda, riconosco il mio amico di un tempo e nel cuore mi si rianimano sentimenti da tempo sopiti. Devo dire che, a suo tempo, non era stato facile per me farmi una ragione della rottura. Senza dubbio si era aperta per colpa di qualcuno. E sette anni prima avevo deciso che la colpa doveva essere la mia.
«Hai foto con te?», chiede Lenka
«Certo», risponde mentre prende il portafoglio dalla tasca. «Ecco, qui siamo nella dača. E qui è quando Daška ha compiuto un mese»
«Che graziosa», dice Lenka
«E qui sono andato a prenderle al reparto maternità»
«E questa chi è?», Lenka osserva attentamente la fotografia
«Non so, una semplice infermiera»
«Ah, sì? Che strana»
«Una normale infermiera. Al tempo ho portato loro una cassa di champagne»
«E questi chi sono?»
«Ma non so», ride lui, «persone qualsiasi, c’era molta gente lì»
«Che strane persone. Ho come la sensazione di conoscerlo questo qui»
«Come potresti conoscerlo?», dico io, «sono persone capitate lì per caso»
«Ma non lo so», risponde, «mi sembra di conoscerlo. Posso avere questa impressione? Oppure non ho più neanche diritto a questo?»
«Dai, finitela voi due», ride di nuovo Aljoška. «Guardate qui il nostro primo dente»
«Oh, veramente», dice Lenka, «guarda come vi divertite».
Continuiamo così ancora per un poco e alla fine Aljoška rimette le fotografie nel portafoglio.
«E allora, sto bene con voi ma è ora che io vada. Mi aspettano. Da oggi verrò più spesso, posso?». Mi guarda e sorride.
Mi sento in imbarazzo e invece di guardare lui mi volto verso Lenka.
«Ma certo, vieni a trovarci», dico io rivolgendomi a lei, «saremo sempre felici di vederti»
«E tu sarai a casa?»
«Ci sarò»
«Sicuro?»
«Al cento per cento». Mi libero dell’imbarazzo e riporto lo sguardo su di lui. «Ci sarò sicuramente. Vieni quando hai tempo»
«Lo farò», dice. «E ancora una cosa. Mi è stato chiesto di prendere una cosa che ti hanno dato a suo tempo…»
«Sì, sì, subito», dico velocemente e mi dirigo nell’altra stanza. Lenka resta in cucina. Rimuovo lo schienale del divano e ci guardo dentro. Della federa con i soldi neanche l’ombra. All’inizio penso che sia solo una mia impressione, tanto impensabile è l’assenza dei soldi. È come se una mattina esci di casa e all’improvviso, di fronte, non vedi più l’edificio della scuola materna che sta in quel posto già da dieci anni. Cioè, i sensi ti dicono che l’asilo deve trovarsi lì, dove si è sempre trovato e dove ti ha disturbato con la sua squadratura da caserma, e invece gli occhi insistono che lì non c’è. Non c’è niente. C’è il vuoto, non c’è un cane. Ossia, forse, di cani ce ne sono, ma con te non hanno niente da spartire. Quelli se ne fregano altamente se in cucina c’è il tuo vecchio amico che ti è venuto in aiuto e tu te ne stai lì in piedi a guardare come uno scemo in un divano vuoto dove, come tu credi che debba essere, dovrebbero trovarsi dei soldi. Dovrebbero, ma adesso non ci sono. Ho una vertigine alla testa. Guardo nel vuoto ancora un minuto e poi, lentamente, mi inginocchio. I soldi non sono neanche sotto il divano. Del resto, la federa, gonfia com’era, non sarebbe mai potuta entrare lì sotto. Nonostante tutto, frugo con le mani. trovo una mia vecchia penna e un temperamatite. “Ecco dove erano andate a finire”, è il pensiero fuori luogo che mi passa per la testa. Dietro il televisore i soldi non ci sono. Neanche sotto il tavolo. Né dietro le tende. Né sulla libreria e né dietro di essa. Mi metto seduto a terra in mezzo alla stanza e tento di frenare la nausea.
«Ehi, che fine hai fatto di là?», risuona la voce di Aljoška. «Ti sei messo a contarli? Non c’è bisogno: si fidano di me». Mi alzo in piedi e abbraccio con lo sguardo tutta la stanza. È una stanza a me estranea: non riconosco nulla di ciò che si trova in essa. Tutte le cose hanno cambiato aspetto. Non c’è un solo oggetto che si trovi al proprio posto. Intorno a me tutto si muove e cerca di sfuggire al mio sguardo. Mai prima di questo momento la mia stanza si è comportata in questo modo.
«Eccomi, arrivo», rispondo, «eccomi, solo un minuto». Passato il minuto i soldi non sono ancora saltati fuori. Stringo forte il whisky con le mani e vado in cucina.
«… E il prossimo anno andremo in vacanza in Turchia», sta dicendo Aljoška quando entro. «Ad Antalya ci sono alberghi splendidi a cinque stelle…»
«Che hai?», mi dice quando mi vede, «stai male?»
«Ljoša, i tuoi soldi non li ho più»
«Come sarebbe a dire che non li hai più?..», rimane senza parole e mi guarda completamente stupito. «E chi li ha?»
«Non lo so. Io non li ho»
«Ma vedi di andare…», mi lancia
«È così e non so cos’altro dirti».
Nessuno dice più una parola e per un paio di minuti in cucina cade un silenzio tombale. Aspetto che tutto finisca o che io mi risvegli.
«D’accordo», dice alla fine Aljoška, «allora, facciamo così… Anche se, no… È meglio che torni domani… Forse li hai messi da qualche parte e non lo ricordi…». Guarda Lenka.
«Non guardate me», si affretta a dire. «Non li ho spostati io e non ne so niente. Forse li ha rubati il caucasico»
«È morto», dico
«A maggior ragione. Prima li ha rubati e poi è morto. Per la felicità si è sbronzato ed è finito nella corsia opposta. Prima è passato da noi, infatti. Lo hai lasciato solo nella stanza?». Lei mi fissa.
«Non… Non ricordo», rispondo, «mi sembra di no»
«Ti sembra? Non c’è volta che a te non sembri! Forza, cerca di ricordare: ce l’hai lasciato o no?»
«Mi sembra di no»
«Vai al diavolo», dice alzando di scatto le mani
«No, non ce l’ho lasciato»
«Sei sicuro?»
«Mi sembra di sì»
«Allora», si inserisce Aljoška. «Ho ancora un paio di giorni. Facciamo che torno domani. Voi cercate bene. Forse l’avete infilata nell’armadio tra la biancheria oppure da qualche altra parte… A volte capita»
«Ci metteremo a cercare», gli assicura Lenka, «tu non preoccuparti. Li troveremo, vedrai».
Quando ci salutiamo, lui non mi guarda in faccia. Il giorno dopo non troviamo ancora niente. E dopo altri due giorni ancora niente. All’inizio Aljoška telefona ogni giorno, poi sempre più di rado. Dopo sei giorni Lenka mi dice adesso possiamo smettere di preoccuparci.
«E perché?», chiedo
«Beh, se non telefona più»
«E allora?»
«Significa che si è tutto risolto. Cioè, si sono messi d’accordo»
«C’erano cinquemila dollari», dico io
«Lo so quanto c’era. Per loro non sono poi un patrimonio»
«Possono farti fuori anche solo per cento bigliettoni»
«Sì, ma non facciamone un dramma. Ti dico che si è calmato tutto. E tanto poi con il tuo Aljoška già non ti parlavi. Ti sei nascosto da lui per tutti questi anni».
Il giorno seguente mi perdo la ricevuta di pagamento del collegamento di Internet. Lenka mi dice che è probabile che sia nel taschino della camicia azzurra che ha già messo tra la biancheria sporca. Non ho voglia di tornare alla posta e quindi rovescio il cesto della biancheria a terra nella stanza da bagno.
«Poi rimetti tutto a posto tu», mi dice Lenka. «Mi sono scocciata di corrervi dietro. Voi siete tre e io sono sola».
A terra, accanto alla mia camicia, a calzette e calzini da bambini e di un lenzuolo, c’è la federa bianca con i timbri di ospedale.
«Dove sono?», dico alzando la testa
«Perché ti inalberi?», si affretta a dirmi lei, «non succederà nulla con il tuo Aljoška»
«Dove sono i soldi?»
«Non eri tu che dicevi che è un delinquente?»
«Dove sono i soldi?»
«In garage. E non sbraitare»
«Dove?»
«Nella scatola, sotto i teloni. C’è quella tua borsa marrone…».
Non l’ascolto neanche più perché sto già correndo verso il telefono.
«Posso parlare con Aleksej?», dico, cercando di non gridare quando finalmente alzano la cornetta
«Non c’è». La voce sembra confusa, come se arrivasse dall’altra parte del mondo.
«E quando torna?»
«Non lo so. Sono già due giorni che è sparito». Rimango senza parole per l’orrore.
«E voi non sapete dov’è?», mi chiede la voce dopo un istante. «Era solo uscito per prendere il pane…»
«Aspettatemi», urlo, «arrivo subito da voi. Sono un suo vecchio amico. Forse vi ha anche parlato di me». Dopo mezz’ora sto già entrando di corsa nel portone di casa sua. In mano ho una borsa piena di soldi non miei.
«Dio», penso allungando la mano verso il campanello, «fa’ che adesso io suono e che ad aprire la porta sia Aljoška. Fa’ un miracolo, Dio mio! Tu sei buono, tu puoi».


traduzione italiana: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
copyright: A. Ghelasimov


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