Una breve introduzione a "Il treno per la Svizzera"

Chiunque, per uno di quegli insondabili casi della vita, si fosse trovato a un certo punto parato innanzi l’ostacolo insormontabile del russo, avrà senza meno ricevuto l’immancabile, sinistro, non richiesto consiglio: ascolta canzoni in lingua originale, guarda film in lingua originale, leggi racconti in lingua originale.
Cechov. Non si può cominciare altrimenti. Saltykov Shedrin. Si progredisce con gli studi, Bunin, stellare, ma passi il tempo a chiederti che avrà voluto dire?, Paustovskij con le sue estenuanti descrizioni della natura è ancora troppo difficile, batti altre strade, la malinconia di Nabokov, sì però a piccole dosi, Pelevin peggio che andar di notte, al terzo anno Vojnovic, ma all’università ti obbligano ai classici, così le fotocopie quasi clandestine dei racconti di Ghelasimov, sotto le volte gotiche e angoscianti della Lomonosov, hanno l’alone elettrizzante della trasgressione. Il mio primo turpiloquio in lingua russa. Brevissime istantanee di vita vissuta, la routine quotidiana sublimata in aristocrazia letteraria, sconfinamenti nel fantastico, piccoli fatti in cui il lettore si specchia e si riconosce, negli slanci eroici come nelle nefandezze. Forse perché su quel Treno per la Svizzera, in momenti diversi, ci siamo saliti tutti, con Vitja, Danguole e gli altri, forse la destinazione era un’altra, un’altra la partenza, o forse, più semplicemente, è il treno che non abbiamo mai preso ma che avremmo sempre desiderato prendere. Ecco: Ghelasimov ci rimanda indietro i treni persi. Che’ poi non abbiate a dire che non v’è stata data una seconda possibilità. (Simone Corazza)

 

 

Andrej Ghelasimov si presenta ai lettori di Russianecho.net

Circa vent’anni fa, quando ancora non avevo un soldo, né la barba né i tre figli e l’incrollabile certezza nel trionfo finale della giustizia, io m’iscrissi nella scuola di teatro del grande regista russo Anatolj Vasilev. La prima cosa che mi fecero vedere fu lo spettacolo “Sei personaggi in cerca d’autore”, tratto dal racconto del geniale Luigi Pirandello. Questa rappresentazione mi colpì a tal punto che per tre giorni non parlai con nessuno, e poi lasciai il teatro e cominciai a scrivere i miei libri. E così la letteratura italiana e Anatolj Vasilev salvarono da me il teatro russo, e i miei personaggi , alla fin fine, trovarono il loro autore.

Andrei Ghelasimov
 
Andreij Ghelasimov - Note biografiche:

Andrej Ghelasimov nasce a Irkutsk nel 1966. Di professione filologo e regista teatrale. All’inizio degli anni ’90 pubblica sulla rivista “Nuova Generazione” ("Смена") la traduzione del romanzo “La sfinge” dello scrittore americano P. Cook. Dal 2002 vive a Mosca. Attualmente si occupa solo di produzione letteraria.

Nel 2001 viene pubblicato “Fox Molder assomiglia a un maiale” ("Фокс Малдер похож на свинью"), il racconto che dà il titolo al libro con cui arriva fra i finalisti al premio Ivan Belkin.
Per il racconto “La sete” ("Жажда" - 2002) viene insignito del premio Apollon Grigoriev ed è nuovamente candidato fra i finalisti del premio Belkin.

A.Ghelasimov è autore di numerose novelle e racconti, di poesie in prosa, del romanzo “L’anno dell’inganno” ("Год обмана"). I suoi libri vengono tradotti in francese e in tedesco.

 

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IL TRENO PER LA SVIZZERA

di Andrej Ghelasimov

 

Molto tempo fa, quando sulla mappa del mondo c’era ancora l’Unione Sovietica e io studiavo all’Istituto di Belle Arti in un corso con un intero gruppo di geni mezzi matti, il nostro insegnante ideò un progetto divertente. Dovevamo imparare metà di una piéce molto vecchia e, pare, austriaca, per poi recitarla insieme alla compagnia del teatro della città di Lucerna. Prima d’allora nessuno di noi era stato in Svizzera e, inoltre, non avevamo idea di come si potesse mettere in scena uno spettacolo contemporaneamente in due lingue.
Perciò eravamo tutti leggermente nervosi.
Da allora sono passati tanti di quegli anni che mia figlia ha fatto in tempo non solo a nascere e a crescere, ma addirittura a finire la scuola. Eppure quel viaggio torna ora alla mente così nitido, come se si fosse svolto un paio d’anni fa. Il tempo è un compagno molto subdolo. Con lui bisogna stare all’erta.

Allorché vedemmo Vitka esclamammo: “O-oh!”
Veniva verso di noi lentamente, come un generale abbandonato dai suoi soldati.
Danguole disse: “Bello”.
Sasha disse: “Che forza”.
Ma Nastja disse: “Scemo. Al primo confine lo butteranno giù dal treno”.
Vitja ci guardò e sorrise sprezzante. Non era necessario insegnargli come vestirsi per un viaggio in Europa. Sapeva lui stesso tutto a perfezione. Aveva un pastrano cosacco. Aveva gli stivali. Aveva un berretto cosacco originale. Era splendido.
“Dove hai preso tutta ‘sta roba?” chiese Sasha.
“Non è ora di prendere posto?” disse Vitja con un bel basso profondo, e con la mano accennò delicatamente all’orologio.
“L’ha comprata sulla Tishinka” disse Danguole. “L’ho visto là ieri”.
“L’ho visto anch’io” disse Rasa con voce insinuante.
“E voi là che ci siete andate a fare?” chiese Nastja.
Si spaventò, perché lei non aveva comprato niente di nuovo per quel viaggio all’estero.
Sasha disse: “Questo è il loro piccolo segreto lituano”.
“L’accento non ti riesce” disse Danguole. “Per quanti sforzi tu faccia. Non sei capace di imitarci”.
“Vedremo” disse Sasha.
Perché Sasha era un attore famoso. Noi eravamo semplici studenti, ma Sasha era un attore vero. Le venditrici lo riconoscevano e io amavo terribilmente andare con lui a bere il caffè al secondo piano del gastronom (1) sulla Nuova Arbat. Spesso mostravano Sasha in televisione, dove recitava nel ruolo del buon ladro Pascia America e del perfido segretario della Komsomol nel film sulla Komsomol sull’Amur, dove alla fine moriva congelato, tanto che dal manto di neve sporgevano solo gli stivali di feltro.
“Sta per terminare l’imbarco (2) sul treno numero tredici “Mosca – Parigi” riecheggiò sulla stazione Bielorussia. “Preghiamo gli accompagnatori di lasciare i vagoni”.
“Mosca – Parigi” ripeté Repa. “Suona figo. Si può chiedere che lo annuncino un’altra volta?”
Vitja di nuovo sorrise sprezzante, e per primo si mosse verso il vagone.

* * *



Decidemmo di fare le prove nel nostro scompartimento. Subito dopo la partenza. Repa si opponeva, ma gli fu risposto che all’esibizione mancava veramente poco. Con tutta probabilità gli attori svizzeri conoscevano già il testo a menadito.
“Non ce la faccio a ricordarlo” sospirò Repa, e dopo averci guardato con amarezza ripose in tasca la sua bottiglia di vodka. “Le parole si imprimono male nella mente”.
Vitja era seduto nell’angolino estremo della cuccetta di sotto e ci guardava sprezzante da sotto la visiera.
“Se magari ti togli il berretto” disse Sasha “Noi adesso cominciamo a provare”.
Vitja tacque, poi tossicchiò e infine disse: “Mi fa male la gola”.
“A tutti fa male la gola” sibilò Repa, che possedeva il basso più profondo di tutto il corso.
Per lui era offensivo che non sostenessimo il suo slancio, poiché riteneva che ora tutti dovessero provare.
“Fa male parecchio” disse Vitja e aprì la bocca.
“Cavolo” disse Sasha “Ci si può infilare un ananas intero là dentro. Hai provato?”
“Ha un cesso per bocca” confermò Repa.
Vitja ci guardò da dietro la sua bocca aperta e aspettava che la smettessimo di fare i pagliacci. Brillava nei suoi occhi una profonda comprensione per la nostra idiozia e una paziente attesa di conforto.
Io dissi: “E’ vero, ha tutto arrossato”.
Vitja chiuse la bocca e si calò il berretto fin sul naso.
“Va bene, taccia pure” disse Sasha. “O si strapperà la gola. Non lo sostituirà nessuno. Ascolta Vitja. Quando arriveremo alla tua battuta, tu mugola qualcosa. Altrimenti non abbiamo idea di quando sta a noi attaccare”.
“Mu-mu” disse Vitja da sotto il berretto, e noi cominciammo a provare.
Fuori dal finestrino scorrevano boschetti multicolori di betulle. Oltre Mosca era già inverno.

* * *



Quando nell’intervallo uscimmo a fumare sulla piattaforma, Sasha inveì a lungo contro Repa, per il fatto che travisava in continuazione il testo.
“Bisogna fumare meno erba” diceva agitando una sigaretta marca “Hostess”. “Ti sei già fumato via gli ultimi neuroni. Presto dimenticherai la strada per il teatro”.
“Una volta l’ho scordata” disse Repa. “Dormivo dalle parti dell’ “Ivushka” in viale Kalinin, sul prato, e quando la mattina mi sono svegliato non ricordavo dove andare”.
“Bravo” fece Sasha.
“M’ha svegliato un poliziotto”.
“T’ha portato in caserma?”
“No. Era un brav’uomo”.
Io dissi: “Aspetta, quand’è stato? Cioè, ti sei ubriacato senza di me?”
Repa disse: “Tu allora andasti via presto. Ricordi, la mostra su Cechov? Volevamo pure fare a botte all’ “Ivushka” ma poi quelle teste di cazzo andarono via”.
Io dissi: “Mi ricordo. Dovevo chiamare mia madre a Irkutsk”.
Qua s’intromise Sasha: “E poi, Repa, perché pronunci il nome Nencia in maniera così strana? E’ solo un nome dopotutto. Ma tu lo dici come … un ginecologo”.
Repa dal piacere socchiuse gli occhi e tirò fuori il fumo dalle narici.
“Te ne sei accorto?” disse. “Viene una figata. Nen-cia”.
Protese le labbra e pronunciò questa parola in un modo così melodioso che io ebbi subito chiaro che cosa aveva in mente. “Piantala” disse Sasha.
“Nen-cia” disse di nuovo Repa.
“Piantala. E’ solo un nome italiano”.
“Ma tu ci sei stato in Italia?” chiesi a Sasha.
“Ci sono stato” disse, e il volto gli si era già fatto diverso.
“E allora, com’è?”
Sasha soffiò via trasognato la cenere dall’estremità della sua sigaretta e guardò dal finestrino.
“Da favola, vecchio mio, da favola” disse. “E tu non sei mai stato all’estero?”
Io dissi: “In Cecoslovacchia. In gita con la Komsomol”.
Sasha ridacchiò e mi diede una pacca sulla spalla: “Non è niente, vecchio mio, niente. Presto vedrai tu stesso.”
Io socchiusi gli occhi e immaginai. Un brivido mi corse lungo la schiena.
“Nen-cia” disse di nuovo Repa.
Ma stavolta non gli riuscì. Io pensavo a tutt’altro.

* * *



Il mattino seguente a Vitja era cambiato lo sguardo. Non ci osservava più sprezzante da sotto la visiera, ma solo di tanto in tanto alzava le palpebre, come se fossero troppo pesanti. Adesso nel suo sguardo riluceva tristezza.
“Ma che non ti sei tolto il berretto?” disse Sasha scendendo dalla cuccetta di sopra.
“E nemmeno il pastrano” aggiunse Repa scansando le gambe di Sasha.
“Tu poi sta’ zitto” gli disse Sasha. “Per colpa tua m’è toccato dormire sopra”.
“Potevate svegliarmi” rispose Repa. “Sarei andato su io”.
“Sì, svegliarti. Sei crollato come un morto. Ma lo fai apposta a fare a gara a chi beve più in fretta?”
“Non mi piace quando torno sobrio. Per questo mangio poco”.
“A me invece piace dormire nella cuccetta di sopra” dissi, e anch’io saltai giù.
“Ecco qua, su, adesso strusciamoci tutti quanti con i sederi” disse Sasha. “Cioè, ma non potevi restartene su ancora un attimo?”
Era severo. Severo ma giusto.
In quell’istante Vitja aprì bocca di nuovo e disse: “Ho bisogno di medicine”.
Sasha gli tolse il berretto, gli tastò un po’ la fronte e si rabbuiò.
“Si rimetterà” lo tranquillizzò Repa. “Abbiamo ancora due giorni di viaggio”.
“A sì?” fece Sasha. “Toccalo un po’, senti come scotta”.

* * *



Danguole scosse la testa, quando vide le bottiglie vuote sotto al tavolo, e subito ci sbatté fuori dallo scompartimento. “Andate a cercare un dottore” disse. “Da qualche parte sul treno dovrà pur esserci un medico. E chiamate qua Raska. Lei ha l’aspirina.”
“Lituana?” disse Sasha.
“Scemo” rispose piano Danguole. “Sta male. E tu non fai altro che scherzare. Ha bisogno d’aiuto. Sfilategli questo cappottino.”
“Non è un cappottino” disse Repa. “Questo è il suo pastrano. Ci ha dormito stanotte.”
“Non si è spogliato per niente?” si stupì Danguole. “Questo non va bene. Voi Russi siete matti. Non è igienico. Di queste cose ci si può ammalare sul serio”.
Le ricerche del medico andarono per le lunghe. Girammo tutto il convoglio senza scovare nulla che facesse al caso. I medici russi non si precipitavano a Parigi. O almeno, non su quel treno.
“Sul quarto vagone viaggia un batteriologo” relazionò Sasha quando ritornammo. “Ma non è un medico, bensì un’infermiera. Simpatica però”.
E con le mani fece vedere di quanto.
Repa disse: “Non indicare su di te”.
“Chi è una batteriologa?” fece Vitja con evidente difficoltà.
“E’ quella dolce fanciulla che ti prende le feci per le analisi”.
“Sasha!” disse Danguole indignata.
“Che c’è?” disse lui. “E’ solo che tu capisci male la lingua russa. Questa non è affatto una parola volgare. E’ un termine medico scientifico. Da noi c’è scritto in tutti gli ospedali. La parola volgare è un’altra. Se vuoi te la dico. E poi c’è ancora la parola “popò” “.
“Non rompere” disse Danguole.
“Io non voglio dar via le feci” disse Vitja. “Mi imbarazza”.
“E’ imbarazzante sai fare cosa?” si girò verso di lui Sasha. “Se sarà necessario, ti costringeremo. Repa ha un barattolo da tre litri nello zaino. Lo porta con sé apposta per comprare la marijuana in Europa. Gli ho spiegato cento volte che da noi marijuana vuol dire canapa, ma non ci crede. Non capisce che quelli semplicemente barano. Hanno pensato una bella parola. Insomma, non temere. Nel caso, c’è il contenitore per te”.
“Va’ all’inferno” disse stancamente Vitja.
“Ecco qua, mi tocca pure andare all’inferno. Danguole, dicci per favore come sarebbe “feci” in lituano?”

* * *



Poco dopo cominciammo ad attraversare i confini. All’uscita dall’ URSS ci sollevarono in alto sul terreno insieme al vagone e cambiarono le ruote sotto di noi. Passammo circa un’ora a sbirciare dal finestrino sforzandoci di vedere cosa succedeva dabbasso. La patria era ancora vicina. Non più di due metri più giù.
Le guardie di frontiera russe girarono con i cani per tutto il treno, controllarono i nostri passaporti, svegliarono Vitja e lo obbligarono a togliersi il berretto. A Nastja chiesero di truccarsi, perché non assomigliava alla sua foto. Così ci salutava il nostro paese.
“Molto bene” disse Sasha, quando finalmente il treno ebbe un sussulto e cominciammo lentamente ad andare avanti.
“L’importante è che non hanno trovato il barattolo di Repa”.
Il mattino dopo la tristezza negli occhi di Vitja s’era mutata in ostinazione. Ascoltava cupo il rumore delle ruote, i nostri discorsi sulla Svizzera, e si accigliò, come se per lui fosse doloroso perfino guardare. Quando gli chiedemmo come si sentiva, abbassò le palpebre e con difficoltà disse rauco: “Non mandatemi indietro. Voglio andare in Svizzera”. Gli promettemmo che tutto sarebbe tornato a posto, ma Danguole ci guardò e scosse le spalle. Lei aveva la sua personale opinione su come viaggiare all’estero. E Vitka, malato, nel suo enorme pastrano nero, si iscriveva a stento nel suo schema. Anzi, non si iscriveva affatto.
Ci disse: “Venite in corridoio. Dobbiamo parlare”.
Alzammo il pollice verso Vitka e chiudemmo la porta su di lui.
“Voi siete matti” ci disse Danguole.
Repa la guardò e disse: “Vitja verrà in Svizzera”.
Allora Danguole disse di nuovo: “Non immaginavo neppure che matti siete”.
Repa ancora una volta disse: “Vitja verrà in Svizzera”.
E Sasha aggiunse: “Tu non preoccuparti, Danguole”.

* * *



Al confine con la Germania c’erano quasi solo doganieri. Uno di loro stava in piedi vicino al nostro finestrino, e Repa disse di lui che assomigliava a un nazista. Poi disse che i nazisti torturarono a morte suo nonno, e che voleva andare a fare i conti con quello là. Sasha gli disse che non doveva bere più, altrimenti non saremmo mai arrivati da nessuna parte e Repa ci restò parecchio male. Io dissi che, forse, era il caso di lasciarlo andare, perché i crucchi la pagassero per il nonno, ma Sasha disse basta bere anche per me. Poi nascose le nostre bottiglie e cominciammo ad aspettare il momento di esibire i passaporti.
Sollevammo Vitja e lo appoggiammo alla parete. Sasha disse che in quel modo sembrava del tutto normale. Bastava solo sfilargli il berretto. Vitja si svegliò e sussurrò che seduto stava scomodo. Molto scomodo. E cominciò a buttarsi di fianco. Allora mi misi a sedere alla sua sinistra, e Sasha a destra. Volevamo sostenerlo con le spalle, ma lui disse che gli faceva male.
Repa ci disse: “L’avete schiacciato, deficienti”.
In quel momento entrarono i Tedeschi.
Dissero: “Gorbaciov. Perestrojka”. Poi dissero: “Dove sono i vostri documenti?”
Avevano berretti ancora più da favola di quello di Vitja. Ma lui non li vide. Stava seduto ad occhi chiusi. In caso contrario, di certo, si sarebbe proprio risentito. Berretti così non li compri mica alla Tishinka. Repa invece era seduto davanti a noi, voltato dall’altra parte. Per dispetto ai Tedeschi. Si sentiva offeso per via del nonno.
I Tedeschi, tuttavia, si comportarono con molta cortesia. Guardarono i nostri passaporti e fecero il saluto a Vitja. Lui però il saluto non lo fece. Perché non li vedeva. E perché lo tenevamo dai fianchi. E anche se non lo avessimo sostenuto, lui, il saluto, non l’avrebbe fatto. Sarebbe caduto. Quelli, probabilmente, lo presero per un generale. Cosa potevano sapere di vecchie uniformi russe?
Quando uscirono, Repa si fece molto triste e disse: “Come farò adesso a guardare negli occhi mio nonno?”
Sasha disse: “Ma non avevi detto che i nazisti l’avevano torturato a morte?”
E Repa: “Ma sì. Quando era in guerra si prese la radicolite. Sapessi ancora come soffre. Se tu gli sedessi affianco”.
Sasha allora recuperò le nostre bottiglie e disse: “Già. Abbiamo fatto male a permettergli di abbattere il muro di Berlino”.

* * *



A Berlino avremmo dovuto trasferirci su un altro treno. Il treno per la Svizzera. Bello come una fiaba per bambini. Ma non ci riuscimmo. Due ore in più, perse fermi a Varsavia, ci mandarono tutto a monte. Il treno svizzero se ne tornò a casa, in Svizzera, e noi, con Vitja malato, i biglietti scaduti e un intero mucchio di carabattole da teatranti, restammo in piedi sulla banchina della stazione di Berlino. Nel bel mezzo della ex capitale dell’impero nazista. La qual cosa, a proposito, dava molto sui nervi a Repa. Ma, a dire il vero, adesso non si scaldava tanto per il nonno.
“Quando ci sarà il prossimo treno per la Svizzera?” chiedeva pensieroso fin tanto che Danguole non si prese d’animo nelle sue piccole mani lituane, cessò di imprecare in un lingua ignota e molto gentilmente gli rispose: “Fra ventiquattr’ore. E allora?” Repa sbatté le palpebre poi disse: “Possiamo andare un po’ in giro qua intorno. Dopotutto siamo in Europa. Io, cacchio, voglio vedere qualcosa”.
Danguole gli rispose a voce molto bassa: “Repa, sono le due di notte. Ci siamo impantanati a metà strada. Non abbiamo soldi. E’ finito tutto il cibo. Vitja ha oltre quaranta di febbre. Fra qualche ora in Svizzera andranno incontro a un treno sul quale noi non saremo. E tu vuoi andare un po’ in giro qua intorno, passeggiare”.
Repa sospirò e scosse le spalle. “Ma sì, cos’altro ci resta da fare?”
Cinque minuti dopo ci eravamo tutti dispersi in varie direzioni. Nastja disse che era già stata a Berlino prima d’ora, pertanto qui non aveva bisogno di noi. Sasha andò con Rasa e Danguole. Io e Repa restammo a sorvegliare Vitja e i bagagli.
All’inizio girammo un po’ avanti e indietro, esaminammo tutto quello che c’era nelle vicinanze. Trovammo un chiosco di giornali, ma era chiuso. Guardammo i giornali attraverso il vetro e tornammo da Vitja. Vedemmo anche un poliziotto. Ci passò accanto senza dire niente. Aveva pure lui lo stesso berretto alto come i doganieri. Poi Repa andò a vedere la sala accanto e trovò un distributore automatico di caffè. Vitja disse che voleva un caffè dal distributore, ma gli rispondemmo che non avevamo soldi. Vitja disse che non aveva mai provato un caffè dal distributore automatico. Allora gli dicemmo di guardare la pubblicità sui muri. Questo avrebbe dovuto distrarlo. Ma non si distrasse e disse di avere la nausea. Però di pubblicità sui muri ce n’erano affisse un sacco.
“Inoltre” disse Vitja “Mi fa male la testa. E la gola”.
La stazione era graziosa. A me e a Repa piacque molto. Repa fece un salto al secondo piano e disse che là il pavimento si muoveva.
“Ti ci puoi trasferire all’edificio accanto”.
Non volli crederci e andai anch’io a vedere. Poi ci portammo Vitja. Vitja disse che l’avevamo stufato e che poteva fare la guardia ai bagagli da solo. Repa disse: “Non ti lasceremo qua”. Vitja chiuse gli occhi e fece spallucce.

* * *



Una volta sulla strada Repa disse: “Non gli succederà niente. Ci sono i poliziotti. E comunque è molto luminoso”.
“E pulito” dissi io. “Hai fatto caso com’è pulito da loro? Non come da noi”.
“Già” disse Repa. “Chissà dov’è che qua da loro si vende ogni genere di pornografia?”
Girammo a lungo al buio senza vedere niente. Repa imprecava pesantemente, io gli dicevo che adesso da loro era notte. Tutti i Tedeschi dormono ancora. Repa però diceva che là doveva per forza essere pieno di ogni sorta di locali notturni che esibiscono sesso. L’aveva visto alla televisione. E in generale tutto doveva luccicare e scintillare.
Invece andavamo tra le tenebre più nere e inciampammo in certi binari. Poi trovammo un magazzino enorme e io dissi che, forse, in televisione questa stazione non la fanno vedere. Oppure solo di giorno. Quando c’è luce e si vede tutto. Ma Repa rispose che io non ne capivo un cacchio di vita notturna europea, e che adesso noi avremmo immancabilmente trovato qualcosa. Bisognava solo girare un altro po’.
Girammo per un’altra mezz’ora e ci perdemmo.
Repa disse: “Sciocchezze. Presto farà luce e vedremo tutto. La stazione è grande. Sarà visibile da lontano”.
Gli dissi che la stazione dev’essere visibile anche al buio. E’ illuminata dalla corrente. Repa rispose un’altra volta che non capivo niente, poi indicò da qualche parte oltre le mie spalle. Mi girai e vidi delle lucine.
“Ecco, vedi?” disse Repa. “E tu che ti preoccupavi”.
“Quella non è la stazione” dissi io.
“E’ un locale notturno” disse Repa. “Preparati alla vita notturna europea”.
Ci avvicinammo all’edificio, che si rivelò un distributore di benzina.
“Caspita” feci io. “Da loro il rifornimento si può fare perfino di notte”.
“Sì vabbè” rispose ostinato Repa. “Qua devono vendere riviste porno”.
“Come fai a saperlo?” dissi.
“Cos’altro possono vendere in un distributore di benzina?”
Entrammo. Proprio all’ingresso sedeva un anziano tedesco grassoccio. Agitò la mano, invitandoci a dare un’occhiata ai suoi articoli.
“Vedi?” fece Repa, dopo aver accennato con la mano ad intere file di scaffali ingombri di sgargianti riviste.
Dieci minuti dopo andammo via dal cordiale tedesco. Repa imprecava a piena voce e diceva che solo i nazisti possono leggere tutte queste riviste di automobili.
“Da noi nemmeno ci sono tante macchine” ripeteva “quante sono le riviste di questi crucchi”.
“Però c’era il nostro “Al volante” “ dissi io . “Te ne sei accorto?”
Così feci conoscenza con la vita notturna europea.

* * *



Danguole disse che ci avrebbe ucciso, se avessimo un’altra volta abbandonato Vitja. Si arrabbiò e ci appellò con certe lunghe parole lituane. Rasa si voltò, affinché non vedessimo come rideva, e Repa disse: “Non è onesto. Noi non offendiamo in tartaro”. “Ma perché, siete tutt’e due tartari?” chiese Nastja con meraviglia.
“No” disse Repa. “Solo lui”.
Io mi meravigliai ancor più di Nastja, ma stetti zitto. Perché per me era indifferente chi essere. E tartaro risultava perfino spassoso.
Danguole disse che non avremmo aspettato il prossimo treno per la Svizzera. Propose di andare coi treni locali.
“Figo” disse Sasha. “Come a Peredelkino. O a Elektrostal”.
Danguole disse che era stata in Germania col marito l’anno scorso. Perciò ora sapeva come arrivare in Svizzera. Erano venuti qua per comprare una BMW.
“Usata” disse lei.
“Davvero hai un marito?” disse Sasha e ci fece l’occhietto.
“Scemo” rispose Danguole. “Stai lontano da me. Perché sono molto arrabbiata”.
“Piccola lituana arrabbiata” disse Sasha. “Tiene in soffitta il suo piccolo marito lituano”.
“Falla finita” ripeté Danguole. “Tanto l’accento non ti viene comunque. Scemo”.
“Danguole, Danguole” non riusciva a tenersi Sasha. “Perché hai questi occhietti così piccolini?”
“Lasciami in pace”.
“Danguole, Danguole, perché hai queste manine così piccoline?”
“Lasciami in pace, ti dico”.
“Danguole, Danguole, perché hai questo nasino così piccolino?”
“Con te non ci parlo”.
“Danguole, Danguole, perché hai questo tuo piccolo maritino?”
La mattina eravamo seduti sul treno locale che partiva in direzione del confine svizzero. Per Basilea avremmo dovuto cambiare ancora diverse volte. Per fortuna, i nostri biglietti si rivelarono validi per tutti i treni diretti verso la Svizzera. Danguole telefonò ai nostri amici e questi dissero che ci sarebbero venuti incontro a Basilea. Con Sasha non parlava più.
Quando entrammo nel vagone, Repa disse: “Accidenti, hanno le vetrate sul treno”. E Rasa: “Non come da noi, due volte più grandi probabilmente”.
Danguole aggiunse: “Da noi, a Kaunas, abbiamo già questo tipo di vagoni. Tu Raska, stupidotta, da un pezzo non sei stata a casa”. Nastja disse: “E le poltrone sono come in aereo. Uno sballo”.
“Non c’è posto per stendere Vitja” dissi io.

* * *



Si trasferirono tutti nello scompartimento, io e Vitja restammo in piedi nel corridoio. Cioè, Vitja stava in piedi, e io lo arreggevo.
“Portalo qui” disse Repa. “Lo mettiamo a sedere vicino la finestra. Qua si può stendere un po’ “.
Vitja però stava in piedi e guardava fisso sul tavolino. Guardammo là anche noi e facemmo silenzio.
C’era una lattina di birra. Una lattina rossa, con lettere bianche sui fianchi. La prima della nostra vita. Prima d’allora la nostra birra era solo in televisione, o da taniche puzzolenti, bidoncini da tre litri e bottiglie verdi col soprannome di “ceburashka” (3).
Noi, si capisce, ci aspettavamo che sarebbe successo. Ma nessuno poteva immaginare così presto.
Non so chi l’avesse dimenticata là.
“Posso io per primo?” disse rauco Vitja. “E’ tutta la vita che volevo provarla”.
“Certo” prendemmo a dire interrompendoci l’un l’altro. “Che discorsi? Dai, vecchio mio, ecco, siediti qua. Adesso te l’apriamo”. “E come?” chiese Vitja.
Rasa disse: “Io ho un bicchiere”.
Tutti noi la guardammo sdegnosi. Quale idiota berrebbe da un bicchiere avendo a disposizione una vera lattina. Con le lettere bianche. Come al cinema.
Vitja si riferiva non tanto a come avrebbe bevuto la birra, quanto a come aprire la lattina.
Danguole disse: “Date qua. Lo so io”.
Strappò la lattina dalla nostra salda presa e alzò l’anello di latta.
“State indietro” disse. “Può spruzzare”.
Ci urtammo l’un con l’altro.
Vitja strizzò gli occhi e la lattina cominciò a sfrigolare fra le piccole dita di Danguole.
“Non avremmo dovuto darle retta” disse piano Repa. “La farà rovesciare, la lituana”.
Danguole porse a Vitja la lattina aperta, e noi restammo in piedi a guardarlo bere. Gli veniva difficile, perciò restammo a guardare abbastanza a lungo. A me cominciò perfino a girare un po’ la testa. Per quanto era mitico tutto ciò. Ma può anche darsi che cominciò a girare per il semplice fatto che ormai non mangiavamo da ventiquattr’ore. Non saprei dire. Per farla breve, Vitja beveva lentamente la birra dalla lattina rossa.
E noi aspettavamo il nostro turno.
E il treno ci portava in Svizzera. Nell’ultimo brandello di epoca comunista. Accelerando delicatamente, con un dondolìo appena percettibile. Tale che, perfino stando in piedi intorno a Vitja non temevamo di cadergli addosso, lo guardavamo, e basta. Dondolavamo al ritmo del treno e del mio capogiro.
E in quel momento, all’improvviso, pensai che quando moriremo … Prima o poi, lo sa il diavolo quando … Insomma, verrà il momento, dove scappi? … Allora ci ritroveremo di nuovo su questo treno. E ci ricorderemo l’uno dell’altro. E Vitja berrà ancora la birra. E questo sarà per sempre.

E qui, come su un piccolo schermo nero alla fine del film, vorrei raccontare quel che successe in seguito ai miei eroi.
Vitja mancò poco che morisse sulla strada per Lucerna, e un grasso medico svizzero, che costringemmo a lavorare di domenica e che con la faccia scontenta incise la gola di Vitja, disse che gli era andata di lusso.
Ancora un po’ e in Svizzera, del nostro amico, sarebbero rimasti solo un pastrano e un berretto. Ma si salvò. E in seguito interpretò parecchi ottimi film.
Repa gira lui stesso film e si sente alla grande.
Sasha è diventato un celebre regista teatrale, ha vinto la “Maschera d’Oro” e non molto tempo fa ha interpretato il ruolo del Maestro nella sensazionale versione televisiva del romanzo di Bulgakov.
Rasa si è sposata con un artista molto famoso.
Danguole, dicono, è diventata editrice di libri. (E questo le si addice molto).
E io scrivo libercoli.
Questa è la vita.

traduzione italiana: Simone Corazza
copyright: A. Ghelasimov - 2006

Note del traduttore:
(1) Non ho ritenuto opportuno mettermi a tradurre parole come gastronom, o come più avanti komsomol per rendere le quali bisogna avventurarsi in contorte perifrasi.
(2) In Russia, nei treni a lunga percorrenza, il controllo dei biglietti e dei documenti avviene sulla banchina ad opera di un controllore (“provodnik” nei vagoni letto), uno per ciascun vagone.
(3) Personaggio fantasioso dei cartoni animati, un animaletto brutto e perciò schivato dagli altri. Era la mascotte della nazionale russa alle recenti olimpiadi invernali di Torino.