Regina Spektor è nata a Mosca il 18 febbraio 1980 da genitori ebrei, il padre fotografo, la madre insegnante di musica. Nel 1989, la famiglia emigrò negli Stati Uniti. A 18 anni Regina ha iniziato a scrivere le sue prime canzoni e a 21 ha inciso il primo disco, "Eleven Eleven". Il suo ultimo album, "Far" (2009) , ha raggiunto la 3a posizione nella classifica USA "Billboard 200" e l'ha definitivamente consacrata a livello internazionale. Pur essendo padrona della lingua russa e una grande ammiratrice di Vladimir Vysotskij, Regina Spektor ha cantato [alla data dell'intervista, n.d.r.] nella sua lingua madre solo alcuni versi di Pasternak nella canzone "Aprés moi le deluge" e non aveva mai concesso interviste a media russi. In questa sua "prima" per il sito "Jewish.ru" - che ringraziamo per la cortese autorizzazione alla riproduzione - la cantante racconta per la prima volta in modo così esteso dei suoi ricordi della Russia, dell'emigrazione e del suo essere ebrea.
Regina Spektor: "Mi piace essere ebrea".
Nel mondo di oggi, segnato dall'avvento dei social networks, come criterio per misurare la popolarità di un musicista si può tranquillamente utilizzare il numero di fan della pagina personale su Facebook. Il numero di fan della cantante americana Regina Spektor si avvicina ormai al milione. Naturalmente, non ha senso confrontare la popolarità della Spektor con Beyoncé o Lady Gaga ma, come giustamente ha fatto notare il manager della cantante, "se già conoscono Regina, conoscono anche tutte le sue canzoni, e l'adorano".
Il fatto è che Regina Spektor sa affascinare il pubblico non solo con le sue qualità musicali, poetiche e di interpretazione, ma anche grazie al suo carattere estroverso e alla semplicità con cui è possibile entrare in contatto con lei, come abbiamo constatato personalmente quando l'abbiamo incontrata in un caffè newyorchese. Nella sua prima, come poi si è scoperto, intervista a una pubblicazione russa, la cantante ricorda la sua infanzia a Mosca, parla dell'antisemitismo nel mondo contemporaneo e spiega perché le piace essere ebrea.
"Parla in Russo"
- In questi ultimi anni, hai dato decine di interviste in diversi paesi e a diversi media: televisioni, radio, giornali, siti web. C'è anche una piccola intervista in russo sulla edizione moscovita di "Time Out" nel luglio dello scorso anno. Tuttavia, non siamo riusciti a trovare altre tue interviste sui media russi. Nessuno mai dalla Russia si era fatto avanti con richieste simili?
- No, non ho mai dato interviste alla stampa russa. A dire il vero, anche nell'intervista apparsa su "Time Out Mosca" i giornalisti hanno scritto loro stessi le mie risposte. Mi era già successo con l'edizione russa di "Rolling Stone", che si inventò un colloquio con me. Non c'era una sola parola autentica. In calce, poi, c'era la firma della giornalista che mi aveva intervistato per il "Rolling Stone" americano.
- Nonostante vivi negli Stati Uniti da più di vent'anni, hai conservato una bellissima lingua russa. Come la mantieni in allenamento? Leggi, scrivi, pensi in russo?
- Mi piace molto leggere libri russi...
- Qualcosa di nuovo? Scrittori contemporanei?
- Di solito. preferisco i classici. Ma qualche mese fa mia cugina che vive a San Francisco mi ha mandato i meravigliosi libri di Yuri Koval "Suer-Vyer" e "La barca più leggera del mondo". Mi sono piaciuti molto.
In generale, la cultura russa l'ho ereditata dai miei genitori e dai nonni. Per questo, sicuramente, parlo come una cinquantenne. Durante l'adolescenza, quando già vivevamo in America, i miei genitori mi obbligavano a parlare in lingua russa. Ricordo che papà ripeteva continuamente "Parla in russo..."
- Adesso, quando vai a trovare i tuoi, continui a parlare in russo con loro?
- Si, ma ora sono più rilassati sulla questione. Penso che il momento più pericoloso in cui vi era il rischio di perdere la lingua russa sia ormai passato, e adesso non sono più tanto preoccupati. La cosa più interessante è che ora loro stessi interpongono nelle loro frasi in russo molte più parole inglesi di quanto faccia io.
Emigrazione nel safari.
- Quando nel 1989 hai lasciato l'Unione Sovietica con la famiglia, cos'ha provato quella bambina di nove anni, euforia davanti alla nuova avventura, tristezza per la separazione da ciò che era familiare e conosciuto, paura al cospetto dell'ignoto?
- Forse è stato il momento più importante della mia vita. Ho incontrato molte persone che alla mia stessa età - 8-9 anni - hanno subito dei cambiamenti nella loro vita che ne hanno segnato pesantemente il corso. Un bambino di nove anni ancora non capisce che i suoi genitori sono persone comuni. Il bambino crede che i suoi genitori sappiano tutto, che possano tutto, che siano onnipotenti. Per questo, non c'era paura. Io ero solo molto preoccupata che mia cugina Masha, più grande di me di due settimane e un giorno, potesse restare mentre io partivo. Io e lei eravamo come due sorelle gemelle. Ma non appena seppi che la sua famiglia sarebbe partita con noi, mi tranquillizzai subito. Poi, cominciai a rendermi conto che nonno e nonna non sarebbero venuti, che il fratello di mio padre e la sua famiglia sarebbero anch'essi rimasti. Ricordo com'erano tutti molto giù, come gli adulti piangevano... Ricordo che non si poteva raccontare niente a nessuno a scuola. Mi accadde di dover dire che sarei andata a stare dalla nonna a Malakhovka.
Allo stesso tempo, al di là di quelle dolorose separazioni, tutto era molto interessante, intrigante. Per noi bambini (per me e per mia cugina), l'America era come la giungla di Kipling per Moogli. Immaginavamo che in America ci fossero tigri, leoni, pantere, scimmie, e che avremmo parlato con loro. Non avevamo idea che anche là avremmo trovato case, che ci vivevano persone. Pensavo che saremmo emigrati in un safari. Era molto interessante, discutevamo con Masha su chi avrebbe avuto più animali. Sapemmo della partenza quando avevamo otto anni, ma ci pensavamo già a cinque...
- Dal giorno della partenza non sei più tornata in Russia. Dopo 21 anni, cosa ricordi di Mosca, dell'Unione Sovietica?
- Ricordo perfettamente il nostro quartiere. Abitavamo nei pressi della metro Zhdanovskaja, oggi Vychino. Vi erano molti edifici di cinque piani, al confine con il bosco. Il nostro appartamento era al primo piano. In cortile c'erano costantemente dei bambini che giocavano. Ricordo le babushke sedute sulle panchine. Ricordo anche che tutte i palazzi erano bianchi, e solo il nostro era di colore giallo. Ai nostri ospiti, spiegavamo sempre che bisognava dirigersi verso il palazzo giallo. Alcuni mesi prima della nostra partenza per gli Stati Uniti, però, ricoprirono di bianco anche quello. Da allora, da quando diventò uguale a tutti gli altri edifici, quella casa smise di essere la "nostra"...
- Quali altri ricordi ti legano a quei tempi?
- Ogni estate andavamo a Parnu (una piccola località sul mar Baltico in Estonia - ndr). Affittavamo una casetta da una "babushka" estone, nel suo cortile c'era una serra con i pomodori. A quei tempi, i miei genitori si interessavano di medicina popolare e poiché crescevo un pò malaticcia, mostravano particolare interesse per i bagni nell'acqua fredda. Così, in quella serra, in mezzo ai pomodori, mi bagnavano con l'acqua fredda di una fontanella... A Parnu avevamo tanti amici di diversa provenienza - da Kiev, Kharkov, Leningrado. La maggior parte di loro poi è emigrata in America, si sono stabiliti chi a New York, chi nel New Jersey. L'amicizia è rimasta da allora, ci incontriamo con le rispettive famiglie. I genitori ci considerano ancora i "loro bambini" e ci preparano un apposito tavolo "per i piccoli", e non importa se i bambini hanno già trent'anni e alcuni di loro hanno i propri figli...
"Il punto più lontano del mondo".
- Hai girato in tournée per tutto il Nord America, suoni regolarmente in Europa, sei andata anche in Australia e in Giappone. Recentemente c'è stata una tournée di grande successo in Sud America, a Buenos Aires hai dovuto organizzare un concerto supplementare per soddisfare tutti i tuoi fan che desideravano venire ad ascoltarti... Perché finora non sei venuta in Russia?
- Forse, uno dei motivi sta proprio nella partenza stessa, che è stata comunque un evento traumatico per una bambina di nove anni. Avevamo appena lasciato l'URSS, che ci toccò pagare il pedaggio alla dogana sovietica! Avevo una collezione di monete straniere e di distintivi. Era tutto nel mio zaino. Ed ecco, una gigantesca doganiera prese a spiegarci che non potevamo portare fuori del paese tutte quelle monete, in quanto superavano l'importo concesso per l'esportazione di valuta. Quanto potevano valere, un centinaio di dollari? .. La doganiera gettò sul tavolo le monete e cominciò a contarle. Poi ci obbligarono a svuotare tutte le valigie, tagliarono con le forbici i nostri passaporti sovietici... Quindi, passarono a pesare ogni milligrammo dei nostri oggetti d'oro. Saltò fuori che stavamo superando la quota ammessa, per rientrare nella norma fui spedita attraverso tutto l'aeroporto per consegnare ai nonni un anello d'oro appartenuto alla mia bisnonna. Loro ci avevano già detto addio per sempre, ed ecco che io corro verso di loro, metto nelle loro mani l'anello e scappo via... Pianti, lacrime...
Così, la Russia è rimasta da allora nei ricordi quel posto dove la gente è senza cuore... Anche se, naturalmente, capisco che tutto dipende dalla persona con cui hai a che fare e non penso che sia una tratto caratteristico dei russi. Semmai, è qualcosa di universale... Ciò nonostante - e so che è una cosa irrazionale - ogni volta che vedo una persona che vive in Russia, lo guardo come se venisse da un un altro pianeta.
- Anche noi siamo arrivati da poco da lì e dopodomani vi saremo di nuovo...
- Si, lo capisco... Ma ricordo quando in un aeroporto svedese sulla tabella dei voli vidi quello per San Pietroburgo, quanto mi stupì che che per volare fin là ci volesse solo un'ora e mezza, perché la Russia, psicologicamente, per me è il punto più lontano del mondo.
- E non hai proprio nessuna voglia di tornare là dove hai trascorso l'infanzia?
- A volte mi viene da pensare a un viaggio in Russia. Voglio visitare la tomba di mio nonno, andare a trovare parenti e amici che non sono venuti in America. Ho anche suggerito al mio agente di organizzare un concerto in Russia. Ma nessun promoter russo ha accettato di invitarmi. Dicono che là non ho un pubblico, che le mie canzoni non si ascoltano alla radio e nessuno mi conosce. Talvolta mi invitano ad andare per suonare in qualche festa privata, ma mi sono rifiutata. Voglio, nel mio primo viaggio in Russia, suonare in un normale concerto davanti a persone comuni, che vivono là, e non cantare ad un evento privato esclusivamente per una élite. E' vero, una volta mi chiesero di prendere parte a un concerto di beneficenza, ma non mi decisi a partire, l'evento si sarebbe svolto d'inverno e l'inverno in Russia, com'è noto, è molto freddo...
Detto per inciso, non è solo in Russia che ci sono difficoltà a organizzare una tournée. In Israele ho avuto problemi simili. Solo un organizzatore israeliano ha voluto lavorare con me. Grazie a lui, tre anni fa ho tenuto due concerti a Tel Aviv. E basta... Naturalmente, è molto frustrante sapere che posso andare e suonare, ma nessuno crede che riempirei la sala. Per questo, mi tocca aspettare.
"Pronta a lottare contro gli antisemiti"
- La tua famiglia ha lasciato l'URSS alla fine degli anni '80 mentre nel paese il sentimento antisemita aveva subito una recrudescenza. In un'intervista al "New York Magazine" del giugno 2006 hai raccontato come tua madre fosse meravigliata di come tu, allora bambina, non nascondessi il tuo essere ebrea. Ricordi qualche episodio?
- In Unione Sovietica c'era questo clima: alla parola "ebreo" la gente restava di ghiaccio. Ma io mi sentivo molto tranquilla rispetto a quella parola. Non avevo nessun genere di complesso a quel riguardo. Dopo la catastrofe di Černobyl', vennero da noi a Mosca da Kiev dei nostri cari amici, madre e figlio, anche loro ebrei. Nel nostro cortile, fra i bambini ve n'erano anche alcuni i cui genitori evidentemente erano antisemiti. E una ragazzina ogni giorno veniva da me e chiedeva: "Ma tu di che origine sei?". Io dicevo che ero ebrea e lei, elettrizzata dalla mia ammissione, correva via soddisfatta. Durante il periodo in cui fu nostro ospite, il bambino di Kiev, un mio coetaneo, correva con me in cortile. Quella ragazzina si avvicinò a me con la solita domanda sulla mia origine. Io, come al solito, dissi:
- Sono ebrea.
Allora la ragazzina si voltò verso il bambino di Kiev e gli chiese:
- E tu?
- Io sono di Kiev, - rispose lui...
Da allora, anche qui in America, se sento qualcosa di antisemita, sono pronta a lottare.
- In quella stessa intervista al "New York Magazine", dicevi: "La questione ebraica è sempre valida..." Poi citi la celebre lettera di Émile Zola al presidente francese in cui lo scrittore accusava le autorità di antisemitismo e pronunciava il suo "J'accuse" in difesa di Alfred Dreyfus - e dici che ci sono ancora motivi "per cui accusare". In cosa consiste, ai tuoi occhi, la "questione ebraica" contemporanea? Di cosa si indignerebbe oggi Zola? Chi accuseresti tu?
- Zola è stato fortunato (ride). Là c'era una situazione evidente... I miti sugli ebrei sono così profondamente radicati nelle coscienze della gente che non so proprio come il mondo farebbe senza... Sembra che molti dei problemi dell'umanità provengano dagli ebrei. Se domani tutti gli ebrei si trasferissero sulla Luna, cosa ne sarebbe della Terra? A chi si darebbe la colpa di tutto, qui?
Quando da cittadino americano viaggi all'estero, vieni a sapere dal contatto con gli altri che tutti i problemi del mondo sembra siano causati dagli Stati Uniti. A volte, a questo si aggiunge che Washington è controllata dagli ebrei. E quando accade, è perfetto: rientro in entrambe le categorie! (ride..) La cosa peggiore, è che queste considerazioni le senti non solo da persone stupide e cattive... Un mio amico, anche lui emigrato, è venuto a stare in USA dalla Slovacchia. Una volta chiacchieravo con sua moglie, una persona bravissima e intelligente. Ed ecco che, nel corso della conversazione, mi dice: "Meno male che sei venuta a stare a New York, qua gli ebrei stanno meglio di chiunque altro". A queste considerazioni è impossibile rispondere. Anche perché la persona che ti dice questo è sinceramente felice per te. Eppure, è questo il vero antisemitismo.
"Su Israele non posso tacere"
- Durante l'operazione antiterroristica dell'esercito israeliano denominata "Piombo fuso", nel gennaio 2009, hai pubblicato una lettera aperta in sostegno di Israele in cui accusavi la stampa "liberal" occidentale di pregiudizi nei confronti dello Stato ebraico. Bisogna ammettere che è un passo molto coraggioso per un'artista occidentale, anche se di origine ebrea. Oggi appoggiare Israele è estremamente impopolare. Rischiavi di perdere decine di migliaia di fan, soprattutto in Europa...
- Non mi sento di aver fatto qualcosa di coraggioso...
- Negli Stati Uniti vivono molti ebrei famosi, ma pochi fra loro sono pronti ad uscire allo scoperto in sostegno di Israele. Recentemente, ad esempio, Dustin Hoffman si è rifiutato di partecipare al festival cinematografico di Haifa in seguito alla storia della flottiglia pro-palestinese. Ed episodi simili si verificano frequentemente. Proprio per questo, il tuo passo può essere considerato coraggioso...
- Non so come mi sarei comportata se fossi nata in America, se non avessi avuto un legame così forte con Israele attraverso i miei amici... Nel 2006, durante la seconda guerra libanese, mi trovavo in Inghilterra per alcuni festival. Nella hall dell'albergo sentii come un inviato britannico raccontava in televisione che "in quest'istante Hezbollah sta combattendo per sopravvivere". Come se Hezbollah fosse un figlio in punto di morte... Chiamai subito i miei amici per sapere cosa stesse succedendo realmente. Mi dissero che Hezbollah stava sparando razzi su Haifa...
Credo che se la gente avesse un rapporto più stretto con Israele, avrebbe anche una percezione diversa di quanto accade là. Inoltre, Israele conduce in modo maldestro le sue campagne di sensibilizzazione sui suoi problemi. Certe volte la condotta israeliana mi manda semplicemente fuori di testa. Mi chiedo, ma perché mettono davanti alla telecamera proprio quest'uomo?! Ora qua pensano che voi siate tutti così... In America, la maggior parte dei PR delle star locali - sono ebrei. Sono capaci di trasformare il più terribile scandalo in una storia fantastica. E allora, perché nessuno di loro può aiutare Israele a raccontare al mondo intero cosa succede là davvero?
D'altra parte, ho l'impressione che le persone nel mondo attendano da Israele, così come d'altronde dagli Stati Uniti, qualcosa che essi stessi non farebbero mai. E questo unisce Israele e l'America. Io non posso tacere su Israele - se non altro perché in Israele si sentono, a mio parere, del tutto isolati. Una volta stavo tornando in volo dall'Inghilterra, accanto a mese sull'aereo sedeva una ragazza e leggeva un libro in ebraico. Mi girai verso di lei, le dissi "salve" e le chiesi da dove venisse. La ragazza nascose in fretta il libro e, come volesse alzarsi per proteggersi, disse "da Israele". Era già pronta alla lotta, a difendersi. Ed in effetti, quando accendi il televisore e senti che tutti ti odiano, reagisci di conseguenza.
"Mi piace essere ebrea"
- Una volta hai confessato che del tuo lavoro ti stancano molto le sedute di registrazione, i viaggi. Non è proprio il genere di vita che vorresti condurre, ma la fai, comprendendo che, altrimenti, la tua musica non raggiungerebbe l'ascoltatore. Invece, quale parte del tuo lavoro ti da più piacere: comporre, scrivere i testi o le esibizioni davanti al pubblico?
- Se di cattivo umore la mattina esci per il quartiere, attorno tutto è sporco, tutti sono cattivi, tutto gira storto, allora pensi: in che terribile città vivo, bisogna andar via lontano e vivere da qualche parte in montagna e pascolare pecore o mucche. Il giorno dopo ti svegli di buon umore, hai tante idee, vai da qualche parte, incontri persone piacevoli... Hai fretta, subito si avvicina un taxi, e il tassista è fantastico, ti racconta tutto del suo Senegal, e dopo, ancora altre decine di cose piacevoli ti accadono nel corso della giornata... Così sono per me anche le tournée. Quando tutto gira storto, non mi sento bene, il pianoforte sul palco è scadente, allora non vorrei andare più da nessuna parte. Se invece tutto va bene, sono pronta ad andare in tour anche per i prossimi tre anni. E poi io adoro viaggiare. Suonare nei concerti - è forse la cosa che amo di più. Ti senti come se in quel momento stessi creando qualcosa di vivo. In questo periodo sto componendo della musica per un musical. Ci sto lavorando su da un anno e mezzo. Dopo, occorerà mettere insieme il tutto, riscrivere, orchestrare. Dall'idea iniziale alla prima del musical possono passare tre-quattro anni... Anche registrare un album richiede tempo. Anche se io adoro registrare: posso trascorrere 20 ore di fila in studio, dimentico di mangiare, di bere. La cosa interessante è che quando si torna a casa dopo tutto questo lavoro di "ascolto", si ha la sensazione di avere lavorato per i campi, i muscoli sono tutti indolenziti a causa dell'alto livello di concentrazione necessario... Salta fuori così che amo nello stesso modo sia la registrazione in studio che le esibizioni dal vivo nei concerti. Ma non vorrei fare solo una cosa, altrimenti uscirei matta.
- Un decennio di persecuzione antisemita ha costretto gli ebrei russi a vergognarsi della loro origine, ha trasformato la loro identità nazionale in un complessa condizione psicologica. Cosa prova per la propria ebraicità Regina Spektor?
- Mi piace essere ebrea. E' cool... Tempo fa ho dovuto sottopormi a un servizio fotografico. Avevo al collo una catenina con la stella di David, e la stilista mi portò qualcos'altro per sostituire il magendavid. Ho chiesto perplessa, perché? La ragazza altrettanto perplessa mi chiese a sua volta: "Vuoi essere fotografata con la stella di David?!" Ma per me era una cosa assolutamente naturale.
di Avraham Grozman e Aleksandr Fishman, © "Jewish.ru", 30.12.2010
(traduzione in italiano di M. Brignone)
Una intervista al canale Moskva24 (2012, in russo, sottotitoli in inglese)
"Ne me quitte pas" (Russian version), live in Mosca, 15/07/2012