A prescindere da un giudizio complessivo sull'opera, che in questa sede ci asteniamo dal dare, il libro di Vladimir Medinskij offre una quantità di spunti inesauribile sulla storia e la cultura russa, e di riflesso sulle storie e le culture dei popoli che con la Russia nel corso dei secoli sono entrati in contatto.

“Miti sulla Russia. A proposito del bere, della pigrizia e della brutalità” (Mosca, 2009) è una carrellata a 360 gradi (a dispetto del titolo, un po’ riduttivo) sulla variegata e radicata tipologia dei stereotipi che hanno avuto come oggetto la Russia, la sua storia e il suo popolo. Stereotipi che non sempre hanno avuto origine dal di fuori del Paese, ma che alle volte gli stessi russi, o determinati settori della popolazione, hanno contribuito ad alimentare.

Tanto per fare un esempio, la percezione della storia fino alla rivoluzione d'ottobre è stata pesantemente condizionata dalla riscrittura integralmente ideologica fattane dai bolscevichi giunti al potere. Questi ultimi hanno salvato ben poco dell'operato di chi li aveva preceduti ed hanno confermato da russi i “miti” negativi che pendevano a loro carico. Non è un caso che per che nei primi due decenni dell'avventura sovietica si sia quasi bandita l'espressione popolo russo: esistevano tutti gli altri popoli - gli ucraini gli armeni i kazachi … - ma i russi sembrava dovessero confluire nella più ampia e più amorfa categoria dei “sovietici”.

Torneremo più volte sul testo di Medinskij, in una sorta di work in progress, proponendone brani in traduzione, citazioni, commenti e riflessioni, suscettibili di ampliamenti, approfondimenti o correzioni. Non vogliamo proporre sentenze definitive, col rischio di aggiungere nuove barriere “ideologiche”, ma solo porre e porci domande per una conoscenza sempre più rispondente alla realtà.

Cominciamo con qualche considerazione sull’intellighenzia. Nella nostra “occidentale” percezione della Russia un ruolo determinante è stato svolto dall'intellighenzia, da quella classe intellettuale di cui abbiamo apprezzato spesso la straordinaria profondità di pensiero e le indimenticabili opere letterarie.
Ma dove ha origine la classe intellettuale russa? Qual'è il suo DNA che ne ha determinato umori e scelte di campo? Dove sta la ragione del suo eterno sentirsi straniero a casa propria? Ecco cosa dice Medinskij.

 

 

L'intellighenzia lacerata…
Una Russia e due “popoli”

[Stralci dal cap.6 “Il ceto del figlio trovatello”]

Ad uno dei suoi sudditi Pietro ORDINÒ di diventare europeo. Ad una altro COMANDÒ di restare indigeno. Nessuna volontarietà. Neanche il minimo diritto di scelta.
Agli europei fu comandato di [salire e ] sedere sul collo degli indigeni (di vivere alle spalle) e di non scenderne mai. Gli indigeni furono condannati a restare indigeni senza la minima chance di mutare il proprio stato. Il loro compito: lavorare e prendersi cura dei russi europei.
Iniziò di fatto la scissione della nazione in due subetnie, diciamo pure in due popoli. E uno di questi si è trovato completamente soggiogato all'altro, in stato di autentica schiavitù.

I russi europei anche alle porte del 1917 non erano molti. I nobili durante il regno di Pietro erano all’incirca 100 mila. All’inizio del XIX secolo erano già 300-320 mila. All’inizio del XX secolo erano nell’ordine di 1 milione e 300 mila. Se nel 1700 per un nobile c’erano approssimativamente 140 russi di basse origini, intorno al 1800 questi erano già soltanto 110-110, e nel 1900 erano 97-98. Gli intellighenti, cioè i russi europei non di origine aristocratica, sono di più. Si tratta della creme della classe mercantile, di imprenditori, di tutto il ceto istruito, a cominciare da chi si accinge a concludere il ginnasio. Ogni militare ed ogni persona istruita è per tradizione, dai tempi di Pietro, “europeo” per definizione. Gli “europei” alla vigilia del 1917 sono già nell'ordine dei tre milioni. Di fatto sono proprio e soltanto loro che detengono il monopolio su qualsivoglia attività intellettuale.

Fino ad oggi studiamo la storia del 100 % dei russi secondo il detto e le opinioni del 1-2-3 % di questa popolazione. E che opinioni! Anche la scienza, intesa come forma di coscienza sociale, è nata tra i russi europei. E' nata in Russia in quell'epoca, quando molti “russi europei” hanno smesso non soltanto di scrivere e parlare, ma perfino di pensare in russo.

[…]

 

Si nota chiaramente che all'inizio la nobiltà, e poi l'intellighenzia, si sentano europei, e ciò nondimeno niente affatto tedeschi o francesi. Loro sono russi... e allo stesso tempo sono emigranti che vivono nel paese di origine. Da ogni lato circondati da indigeni selvaggi.
Nel XVIII secolo si parlava di “popolo e nobiltà”. Nel XIX e XX secolo di “popolo e intellighenzia”. L'intellighenzia sembrava non facesse parte del popolo, o appartenesse a qualche altro popolo, pure russo ma diverso.
Struggente l'espressione di Bunin: “La Russia si è dissolta in due giorni... Fa impressione, si è frantumata tutta in una volta, finanche nei particolari, nei dettagli... È rimasto il popolino..."
[…]
Ma se la Russia si è dissolta in due giorni, se il popolino non è la Russia [come dice Bunin], allora cos'è?

 

[…]

 

La questione non sta per niente nel fatto che Bunin sia un uomo cattivo che non ami il popolo russo. Bunin a suo modo riflette spietatamente le conseguenze di questa tri-centenaria divisione del popolo in una nobiltà dirigente, in una intellighenzia eternamente scontenta di tutto da una parte... e tutti gli altri dall'altra.
Bunin è in sostanza lo specchio di trecento anni di scissione della nazione. Che io credo abbia avuto inizio allora, quando ai “migliori della città” fu ordinato di radersi e di fumare la pipa.

 

[…]

 

Ivan Solonevič definisce i russi europei severamente come il “ceto del figlio trovatello”. Sono come i piccoli del cuculo scaricati nel nido dell'uccello canterino. Un ceto che si è trovato in una situazione ambivalente, molto indefinita. Certamente non erano europei, e in Europa nessuno li aspettava. Ma si sono separati anche dalla terra natia, e giudicavano la Russia da posizioni straniere.
Di regola [i russi europei] giudicavano [la Russia] con malevola ironia e la condannavano. Ed anche se non con malevolenza, ma con sincero interesse e compartecipazione, lo hanno fatto pur sempre dal di fuori, da posizioni straniere.

 

 

[Testi e traduzioni a cura di Giuseppe Iannello]