Ho deciso di andare ad Elbrus nello spazio di cinque minuti, acconsentii subito, non ci fu bisogno di convincermi. Nel mio intimo, ero già pronta da tempo a questo viaggio. Le montagne, il sole luminoso di febbraio, le luccicante neve bianca, gli sci, il vin brulè e la preziosa compagnia di persone interessanti e romantiche – tutto ciò mi entusiasmò. I motivi per tentennare furono dissipati dall’entusiasmo delle amiche, che mi avevano invitato a questo viaggio:
“Non sai sciare ? – Ti insegniamo!”
“Non hai gli sci ? – Li troviamo!”
“L’equipaggiamento? Lo compri!”
Così, in cinque minuti, io ero diventata una discesista.
La cosa più affascinate in questa proposta era la magica parola “Elbrus”. Fin da piccola io ero incantata dalla bellezza di questa vetta innevata. Ho trascorso la mia infanzia in un Paese chiamato Unione Sovietica. Vivevo nel Kazakistan, ma per le vacanze ci portavano nel Caucaso. La colonia dei bambini era situata ai piedi delle montagne Beshtau, e da lontano già si scorgeva la vetta a due punte dell’Elbrus. Le vacanze gratuite per i bambini delle famiglie degli operai, dei semplici impiegati erano una delle conquiste del socialismo, che, purtroppo, il tempo ha indiscriminatamente cancellato assieme a tutti gli aspetti negativi dello stato sovietico: abbiamo buttato via il bambino assieme all’acqua sporca! Sono passati molti anni, ma il desiderio di ritornare in quei bellissimi posti era vissuto dentro me in qualche anfratto profondo, senza che io lo sapessi. Ed ecco che in un momento spuntò fuori.
ElbrusIl monte Elbrus è una altissima montagna europea dall’altezza di 6500 metri e si trova nel Caucaso, nella regione Kabardino-Balcaria. Onestamente confesso che, essendo vissuta per tutta la mia vita in Russia, conoscevo molto poco il Kabardino-Balcaria. Naturalmente, immaginavo che fosse da qualche parte nel Caucaso, ma dove di preciso? Presi la carta geografica: “Ai confini con la Georgia, sembra”. Rividi i nomi delle città che conoscevo dall’infanzia: Minerlnie Vadì, Nalcik ,Baxan. Durante gli anni della perestroika, della guerra in Cecenia tutte queste città erano finite chissà dove nell’oblio. Erano da qualche parte lontana, in un’altra realtà. Con la guerra cecena il Paese si era diviso in due parti. In una c’era la vita normale, niente richiamava le azioni militari, nell’altra c’era una vera e propria guerra, con incredibili distruzioni e spaventoso dolore. Questa è la realtà del nostro tempo.
Ma torniamo al viaggio. Il nostro autobus partì da Mosca di buon mattino. Il giorno della partenza la televisione aveva messo in guardia sui pericoli delle valanghe nei monti del Caucaso, sull’eccezionale nevicata a Soci (che è pure nel Caucaso), sui cumuli di neve sulle strade. L’amica che mi aveva invitata cominciò a far incetta di scatolette nel caso in cui la strada fosse interrotta e ci toccasse fermarci per qualche giorno.
Ma la strada era completamente libera ed il tempo fu meraviglioso. Il nostro autobus durante il viaggio si dovette fermare per quattro lunghe ore per un guasto al motore. Inspiegabilmente, durante il tragitto, era scomparso un dado “con filettatura 12 e passo 1”. In quelle ore passate in attesa, tutti i passeggeri dell’autobus impararono il nome di questo dado famigerato e – come si chiarì in seguito – molto raro. Con difficoltà ripararono il guasto e l’autobus ripartì. Durante il viaggio ( che durò circa 30 ore) noi abbiamo fatto molte fermate. Ci siamo riposati, abbiamo mangiato.
Dappertutto, io mi sentivo come mi sentivo a Nighni Novgorod, a Mosca, ad Arzamas. Il giorno successivo eravamo già nel Caucaso. Ci fermammo vicino un piccolo negozietto. In pratica, questa era l’ultima sosta nel tragitto. E lì io mi sono sentita in qualche modo diversa. Non avevo superato il confine di un altro stato, ero sempre in Russia, ma le persone qui erano già diverse. Questo era il Caucaso. Mi era nata la percezione della mia diversità. Io non capivo e non conoscevo le persone che camminavano accanto a me. Eravamo diversi. Diversa la cultura, le tradizioni. Non mi permetterei di scrivere che nei loro sguardi percepivo dell’aggressività, ma la sensazione di qualcosa di simile mi colpi’ direttamente ed intimamente. Qui mi sentivo del tutto estranea, straniera. Forse questa era una sensazione temporanea, che sarebbe passata dopo un’ora o due, o il giorno successivo a questa mia permanenza in quel posto sconosciuto del Caucaso. Ma da bambina io, trovandomi nel Caucaso, non avevo mai provato qualcosa di simile. Noi ragazzine di 13-14 anni correvamo dal nostro campo dei pionieri alla vicina cittadina per andare al mercato. Mi ricordo che la sera tardi circolavamo fra certi gruppi di dacie in cerca di fiori. Noi vivevamo in un unico grande paese, e tutte le persone ci sembravano dappertutto identiche, non temevamo niente e nessuno. Quando è cambiato il modo di sentire ed in conseguenza di cosa? La guerra in Cecenia ha così stravolto il nostro sentire o è stato qualcos’altro?
Arrivammo a destinazione dopo mezzogiorno. Dalla finestra dell’albergo si apriva una splendida vista sul monte Ceghet, una delle vette più pittoresche della catena del Caucaso.
La sera da noi fu organizzato un corso sulle tecniche per la sicurezza e fu presentato un istruttore che addestrava i principianti. Costui era un balcarico di nome Chanajpi (si presentò come Chan), un uomo abbronzato e dai capelli bianchi sui 50-60 anni, dallo sguardo fiero, un poco in tralice, occhi castani, non molto alto. Egli ci propose di iniziare l’indomani.
- Non andremo ad Elbrus, cominceremo dal Ceghet. Ci sono meno persone e c’è un’ottima neve, è una vetta più facile- argomentò così la sua proposta.
Subito dopo noi seppimo che il Ceghet è per i discesisti una delle più difficili e pericolose montagne d’Europa. Ma noi iniziammo con quello per una ragione molto semplice, come i successivi accadimenti dimostrarono. Ad ogni istruttore è assegnata la propria montagna (Ed oltre a ciò, girava la voce che i Kabardini potevano lavorare solo nell’Elbrus , mentre i Balcarici solo nel Ceghet). Chan era balcarico e perciò il Ceghet ci attendeva.
Io ho cercato in seguito di chiarire come vivono queste due popolazioni – Kabardini e balcarici – riuniti in un’unica entità territoriale. Quali fossero i rapporti fra i vicini. I kabardini, di norma, vivono in basso, in pianura, i balcarici in alto, sulle montagne. Chan a questa mia domanda rispose abbastanza evasivamente. “ Come vivono? Come i Russi con gli Ebrei.” Senza precisare chi fossero i Russi e chi gli Ebrei ed in generale cosa intendesse dire con questo. Io non insistetti nelle domande, perché l’argomento era troppo delicato.
Il giorno dopo ho chiacchierato con Zemira. E’ una kabardina poco più che quarantenne, vive a Nalcik e sta tirando su due figli. A Nalcik non c’è lavoro e perciò le tocca arrivare fin qua in Balkaria in un luogo di villeggiatura e lavorare con il metodo della turnazione. Per tre settimane lavora lontano dalla sua famiglia, dopodichè ritorna a casa e ci resta per una settimana. Riceve seimila rubli al mese. (circa E. 165,00).
“Mia figlia ormai è grande – mi dice Zamira – E’ una studentessa, per lei non mi preoccupo. Ma mio figlio è ancora uno studente di 16 anni. I vicini, naturalmente, lo tengono d’occhio. Mi raccontano immancabilmente con chi va in giro, a che ora torna a casa . Prima della partenza, gli preparo da mangiare e metto tutto nel frigo. Soldi non ne ha e senza soldi non si possono fare affari sporchi, e con questo mi tranquillizzo.”
Zamira, che è una kabardina, lavora in Balkaria. “Noi kabardini e i balcarici viviamo insieme come dei vicini, viviamo normalmente – proseguì Zamira – benché, naturalmente, proveniamo da culture diverse. Anche le lingue sono completamente diverse.”
Donna ElbrusIl giorno seguente ho visitato il mercato che si svolge ai piedi del monte Ceghet. E´ un piccolo mercatino, rivolto esclusivamente ai turisti: souvenir, lavori a maglia, scialli di lana, manicotti di pelliccia, cappelli. Ho conosciuto una anziana signora colorita – la balcarica Valentina. Quando ci siamo incontrate, lei stava mostrando al suo cliente una autentica pelle di lupo. Aveva una grande varietà di pelli, piume, lana di pecora. Io salutai la donna, attaccando una conversazione.
“Mi interesserebbe vedere la vita quotidiana dei balcarici, vedere come vivete. Posso venirle a fare una visita?” Chiesi alla donna.
“Si, certamente. Venite, guardate pure. Noi viviamo nella cittadina di Elbrus, li c’è casa mia. Io sono tutti i giorni qui al mercato, ma mia nuora vi riceverà e vi mostrerà ogni cosa.
Io fui molto contenta dell’invito di Valentina. La mattina dopo con la macchina fotografica io ed una delle mie compagne (un’altra si rifiutò categoricamente) andammo al villaggio, la mia immaginazione si figurava una grande impresa agricola, un cortile in cui corre il pollame, mentre belano le pecore dentro il recinto. La vacca nella stalla mastica il fieno. In casa ci sono tipiche suppellettili caucasiche.
La casa si vedeva da lontano, grande, luminosa, il cancello era abbellito da intarsi fantasiosi e dipinti. Nel cortile un enorme cane peloso – un pastore caucasico o – come anche li chiamano – un “caucasiano”. I pastori caucasici sono ritenuti cani molto feroci. Possono respingere i lupi e sono usati per la guardia delle pecore sui monti. Ma io - non so perché - non ho avuto mai paura di loro. Mi ricordo (molti anni fa ) il terrore nei volti di alcune donne che possedevano un piccolo “caucasiano”. Arrivato vicino a me, lui tirava il guinzaglio e mi si gettava addosso con uno slancio affettuoso. Quando si alzava sulle zampe, il suo muso arrivava al livello del mio volto. Mi dava una leccata. I suoi occhi esprimevano un gioioso saluto. La padrona si spaventava (per me), ma io no. Nonostante l’enorme dimensione e l’aspetto del caucasiano, non provavo paura. Così, anche questo cane domestico cominciò ad abbaiare verso di noi, quasi per darsi un contegno, fingendo l’ira ed io mi accorsi subito che lo faceva semplicemente per guadagnarsi il pane, in lui non c’era aggressività. Probabilmente i cani caucasiani riservano la loro aggressività e cattiveria alle volpi, ma trattano con rispetto e amore le persone.
La nuora di Valentina, una giovane simpatica ragazza, ci accolse sulla soglia di una grande casa. Ci invitò ad entrare. Nei suoi occhi brillava la soddisfazione perchè eravamo venuti per vedere come vivevano, e voleva mostrarcelo. In casa tutto splendeva, aveva appena finito di rinnovarla. Il mobilio era nuovo, l’agiatezza traspariva da ogni cosa, era bello. Non c’era soltanto quello per cui e io ero andata fin là, non c’era nessuna tipicità: praticamente non c’era in quella casa niente che fosse specificatamente caucasico. Questo mi indusse una certa malinconia.
“Certamente voi allevate il bestiame? – Accanitamente io cercavo di trovare almeno qualcosa di particolare – Vostra suocera vende al mercato le pelli di montone, gli scialli di lana di pecora.”
“No, noi non abbiamo animali, nessuno tranne il cane.”
“E allora come allevate i vostri figli, dove prendete il latte? Dai vicini? La vostra figlia più giovane è ancora molto piccola “– insistevo io.
“Latte? E a che ci serve il latte? Ai miei figli non piace il latte.”
“E con cosa li tirate su?”
“Scelgono loro stessi: la mia figlia più grande ama correre al negozio per prendere le tagliatelle. Sapete, c’è un tipo di tagliatelle di pronta preparazione, si chiama “Rolton”, le butti nell’acqua bollente e li mangi. Le piacciono anche le patatine.”
“Ed i vostri figli mangiano queste cose?”
“Proprio così!”
“Ed anche suo marito mangia il Rolton?”
“No, mio marito mangia piatti di carne, gli preparo delle cotolette.”
“E dove lavora suo marito?”
“Ha un ottimo lavoro: lavora alla funivia francese per l’ Elbrus.” (Io avevo appreso da Zamira, che questo lavoro qui era ritenuto molto prestigioso, e vi si accedeva solo con grandi conoscenze)
“E lei lavora?”
“No, ma con la mia attività il lavoro c’è sempre. Io sono una educatrice di giardino d’infanzia, ma adesso sto a casa con le mie figlie. Faccio lavori a maglia e mia suocera li vende al mercato.”
“E dove prendete la lana per la maglia?”
“Ma questa non è lana, noi utilizziamo un filato sintetico, lo portiamo da Mosca. Ecco, vedete la macchina per la maglieria. Se voi volete visitare un allevamento, allora potete passare dalla mia vicina Fatima, lei alleva pecore e mucche. Adesso è in casa.”
Fatima abitava nella via successiva. Lì io mi sono potuta sfogare, fotografando a volontà. Ci offrì del latte caldo, ma non ci invitò ad entrare in casa. E non ci fu alcuna conversazione.
Lungo la strada del ritorno, passammo proprio in quel negozio, dove correva la nipotina di Valentina , una balcarica in cerca di tagliatelle di pronta preparazione e di patatine. Di prodotti locali lì c’erano soltanto il pane, un tipo di formaggio di capra ed un liquore. Per il resto – coca-cola, sigarette, patatine, “rolton”, mars, snek – la globalizzazione...
Quando uscimmo dal negozio, fummo circondati da dei muli. Essi vagavano per il villaggio come cani randagi e cercavano qualcosa da mangiare. La mia amica diede loro del pane e loro poi continuarono a seguirci a lungo ed insistentemente. Probabilmente io mi aspettavo da questo mio viaggio qualcosa di più di quello che la realtà poteva offrirmi. E forse non potevo trovare quella scintilla, che avrebbe acceso la fiamma nel mio cuore. Non vi fu qualcosa di vivido, che mi ricordasse l’incontro. La cosa più probabile è che io non fossi pronta per questo, che qualcosa internamente non mi consentisse di aprirmi, di vedere, di ascoltare. E per questo io senz’altro ritornerò alle pendici dell’Elbrus.

 

(traduzione dal russo di Maurizio Lo Passo)

 

 

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