In occasione del centenario della nascita (11 dicembre, 1918 – 2018) ci piace ricordare il grande scrittore russo pubblicando tre piccoli schizzi tratti da "Minuzie" [Крохотки] : "Viaggiando lungo l'Oka", "Cominciando una nuova giornata" e "Tanto, noi non moriremo". La piccola raccolta fu scritta da Solženicyn negli anni 1958-1960, rimanendo inedita in URSS; in Italia fu pubblicata nel 1971, all’interno della silloge "Per il bene della causa", nella traduzione di Pietro Zveteremich che qui riproduciamo.

 

Viaggiando lungo l’Oka

 

Percorrendo le strade provinciali della Russia centrale cominci a capire dove stia la chiave del paesaggio russo che acquieta e dà pace.

Essa è nelle chiese. Salite di corsa sulle alture, arrampicate sui colli, affacciatesi come bianche e rosse zarine sugli ampi fiumi, innalzatesi con i campanili eleganti, affilati, intagliati, sopra la quotidianità di paglia e di assi di legno, esse si ammiccano a vicenda da assi lontano; dai villaggi isolati, invisibili l’uno all’altro, esse si innalzano verso un unico cielo.

E dovunque tu vagabondi nella campagna e fra i prati, lontano da ogni luogo abitato, non sei mai solo: al di sopra della muraglia dei boschi, dei covoni e della stessa circolarità terrestre, sempre ti adesca la cupola d’un piccolo campanile, sia da Borki Lovetskie, sia da Ljubiči, sia da Gavrilovskoe.

Ma entri nel villaggio e impari che non viventi, ma uccisi ti avevano salutato da lontano. Le croci sono da tempo battute e curvate; la cupola scortecciata si spalanca con lo scheletro delle costole arrugginite; la malerba cresce sui tetti e nelle crepe dei muri; di rado s’è ancora conservato il cimitero che una volta stava intorno alla chiesa, ma, se sì, le sue croci sono abbattute, le tombe scoperchiate; le immagini dietro l’altare sono dilavate dalle piogge di decenni, deturpate da scritte oscene.

Sul sagrato, botti di salamoia: un trattore svolta in quella direzione. Oppure è un camion che entra a marcia indietro nell’ingresso del portico della chiesa con il cassone: per caricare sacchi. In una chiesa vibrano le macchine utensili. Quest’altra è semplicemente chiusa a chiave, muta. Una terza, una quarta sono sedi di clubs. “Raggiungiamo un’alta produzione di burro!”, “Il poema del mare”, “La grande eroica impresa”.

Sempre gli uomini sono stati cupidi e sovente cattivi. Ma echeggiava lo scampanio della sera, volava sul villaggio, sui campi, sui boschi. Esso rammentava che bisogna abbandonare le meschine cose terrene, dedicare un’ora e i propri pensieri all’eternità. Questo scampanio, di cui oggi conserviamo solamente l’antica melodia, innalzava la gente, impediva ad essa di chinarsi su quattro gambe.

In queste pietre, in questi piccoli campanili i nostri avi misero tutto ciò che avevano di meglio, tutta la loro concezione della vita.

“Dacci sotto, Vitka; forza, non lesinare! Alle sei c’è il cinema, alle otto si balla…”




Cominciando una nuova giornata

 

Al sorger del sole una trentina di giovani sono usciti di corsa sulla radura, si sono disposti tutti di faccia al sole e hanno cominciato a far piegamenti, flessioni, a chinarsi, gettarsi bocconi, protendere le braccia, alzare le braccia, rovesciarsi all’indietro. E così per un quarto d’ora.

Da lontano poteva sembrare che pregassero.

Ai nostri giorni nessuno si meraviglia che l’uomo serva quotidianamente, con pazienza  e cura, il proprio corpo.

Ma ci si offenderebbe se egli servisse così il proprio spirito.

No, non è preghiera questa. E’ caricare gli accumulatori.



Tanto, noi non moriremo…

 

Ma più di tutto abbiamo cominciato ad aver paura dei morti e della morte.

Se in qualche famiglia c’è un morto, cerchiamo di non scrivere, di non andarci: non sappiamo davvero che cosa dire, come parlarle della morte…

Si considera perfino vergognoso nominare il cimitero come qualcosa di serio. Nel proprio luogo di lavoro nessuno dirà mai: “Non posso venire per il lavoro festivo, perché debbo far visita ai miei cari al cimitero”. E’ forse una cosa seria visitare chi non chiede più da mangiare?

Trasportare un defunto da una città all’altra’ Ma che capriccio! Nessuno ti darà mai un vagone per questo. Anche attraverso le città oggi più nessuno li trasporta con un’orchestra, se si tratta di gentucola, ma li fa correre in fretta su un camion.

Una volta nei nostri cimiteri, di domenica camminavano fra le tombe, cantavano limpidamente e spandevano profumato incenso. Il cuore si sentiva pacificato, la cicatrice della morte inevitabile non lo opprimeva dolorosamente. I defunti parevano sorriderci da sotto i loro verdi tumuli:”Non è niente!… non è niente!...”.

E oggi invece, se pure il cimitero esiste ancora, campeggia un cartello: “Proprietari di tombe! Per evitare multe, asportate il pattume dell’anno scorso!”. Ma il più delle volte i cimiteri vengono spazzati via, il terreno pareggiato con i bulldozers per farne stadi, parchi di cultura.

Eppure c’è ancora chi è morto per la patria; sì, come del resto può avvenire ancora a me o te.A costoro la nostra Chiesa in passato dedicava una giornata: la ricordanza dei combattenti uccisi in campo di battaglia. L’Inghilterra li ricorda nella Giornata dei Papaveri. Tutti i popoli hanno una giornata del genere per pensare a coloro che sono morti per noi.

Per noi ne sono morti più che mai, eppure non abbiamo una giornata per loro. Se dovessimo voltarci indietro a guardare tutti coloro che sono periti, chi metterebbe più mattoni? In tre guerre abbiamo perduto mariti, figli, fidanzati, ma che spariscano detestabili nel nulla, sotto un cippo di legno verniciato, che non ci impediscano di vivere! Tanto, noi non moriremo mai!

 

[Traduzione di Pietro Zveteremich]


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