Cento anni fa il tour dell'isola. In macchina!
Difficile trovare un viaggio più completo e meglio programmato, volto a cogliere l'identità suggestiva e così articolata della Sicilia e capace poi di descriverne i caratteri paesaggistici e monumentali e, in generale, la ricchezza della sua civiltà artistica, di quello intrapreso dalla principessa russa e scrittrice Marija Michajlovna Volkonskaja (1863-1943), vissuta prevalentemente all’estero (Francia, Svizzera, Italia), convertitasi al cattolicesimo nel 1901 e stabilitasi a lungo a Roma sino alla morte.
Ella, di cui ci offre un’ampia scheda Salvo Di Matteo nel suo “Il Grande Viaggio in Sicilia” (Palermo 2008), confondendola però inizialmente con la moglie di un decabrista, fu autrice di molte opere religiose (tra cui una su Don Bosco pubblicata a San Pietroburgo nel 1908) e anche altri suoi parenti divennero cattolici: uno di loro, il fratello Alexander, era l’attaché militare dell’ambasciata russa a Roma, tra il 1908 e il 1912 e fu poi ordinato sacerdote di rito orientale nel 1930.
La Volkonskaja nel 1913 giunge in treno in Sicilia, in una Messina ancora piegata dalla catastrofe del terremoto di quattro anni prima. Nelle sue “Impressions de Sicile” (Paris, 1914), illustrato da alcuni acquarelli dell’autrice, ella così scrive (la traduzione dal francese è nostra): “Messina è di fronte a noi. Un mare agitato, d’un blu scuro striato di macchie glauche, ci separa dalla povera città distrutta. Le onde s’infrangono sul ponte e il loro spruzzo schiumoso arriva fino a noi. Non resta più nulla di ciò che costituiva il fascino e la grazia della ridente Messina che esisteva alcuni anni fa. Sono in piedi solo pezzi di muro, facciate di palazzi o di chiese, i cui interni e le cui pareti laterali sono crollati. Dappertutto macerie. Vagoncini e carretti trasportano mucchi di rovine a mare... La cattedrale ci mostra, in un crollo generale desolante a vedersi, la metà di una cupola tutta ornata di mosaici fondo oro e di resti di scultura gotica. In mezzo a queste rovine, una nuova Messina è sorta nei sobborghi e in città. Baracche di legno dipinte di bianco e coperte di lamiera, tutte eguali, ospitano gli abitanti che non vogliono abbandonare la loro città a dispetto dei pericoli che corrono. La vita è ripresa; nei seminterrati delle case crepate si sono aperti negozi. La popolazione vivace, pacata, piena di energia, ripara, ricostruisce, rifà la sua bella Messina così bene che in una dozzina d’anni questi ammassi senza nome lasceranno il posto ad una città attiva, prospera e piena di promesse. Il “libeccio” soffia sulle coste della Calabria. Grosse nuvole grigie lasciano cadere grevi acquazzoni; le montagne illividiscono; poi, passato l’acquazzone, il sole macchia lo stretto di chiazze d’azzurro”. Appare evidente dal testo la sensibilità coloristica dell’autrice.
Dalla città si allontanò subito in automobile per recarsi a Taormina. Ed ecco altre sue impressioni lungo il tragitto: “Sulla strada da Messina a Taormina, quanto mai ingombra e poco percorribile, incontriamo pesanti carrette, trainati da buoi scuri, e leggeri carretti a due ruote pieni di originalità. Una bardatura arricchita da piume colorate, da “paillettes” argentate e da un corno di cuoio rosso, fissata alla selletta, adorna di una nota vibrante la mula o il cavallo che tira il veicolo. Questa bardatura brillante e ricca; questi carretti dipinti con vari soggetti, dalle tonalità vivaci, danno, fin dall’ingresso in Sicilia, l’impressione nettissima che gli abitanti del paese hanno una marcata predilezione per la pompa e gli orpelli. E fa uno strano contrasto vedere spesso i conducenti di questi ricchi carretti vestiti di stracci, con la testa avvolta da un fazzoletto colorato e il corpo coperto da un grande scialle a frange o da una cappa di colore scuro: contrasto che fa presentire le anomalie e le stranezze di quest’isola ancora piena di mistero. I pannelli di questi “carretti” sono decorati da pitture che ricordano episodi del Medioevo. Il culto della cavalleria, che è al fondo dell’anima siciliana, si manifesta, nelle classi più basse della popolazione, con la rappresentazione di scene di guerra e di sangue, improntate, per la maggior parte, alle lotte sostenute per l’indipendenza dell’isola. Ornamenti in ferro battuto stanno sugli assi e completano la decorazione di questi “carretti”, di cui avevo spesso sentito parlare, ma nei quali non pensavo di trovare tante. Seguiamo la costa. La strada affonda a tratti nella terra per raggiungere dei ponti che attraversano larghi torrenti ora quasi in secco. I villaggi si succedono senza interruzione: sono attorniati da bei giardini “d’agrumi”, i cui frutti ancora verdi lasciano presagire una ricca raccolta”.
Alloggiò, quindi, in un albergo di Taormina, passeggiò per le sue strade, osservò la fisionomia della gente, notando la folta presenza di stranieri ed emozionandosi alla vista del paesaggio. Più tardi proseguì per Acireale, di cui ammirò lo splendido barocco, e si fermò a Catania, dove le apparve vivo il contrasto tra la tristezza della periferia industriale, con edifici grigi nei quali viveva una popolazione povera, e il tenore di vita dei quartieri del centro, con gente ben vestita, tanto passeggio su bei “landaus”, molte librerie. L’indomani s'avviò a Siracusa, attenta sempre lungo la via ai carretti che incontrava e ai tipi a cavallo dei muli: scese all' "Hotel Villa Politi", le cuicamere davano sulle latomie dei Cappuccini. Molte ore trascorse nel dedalo delle rocce bianche e grigie, immersa nella lussureggiante vegetazione di aranci, cipressi, lauri, limoni, confessando che le sembrava di trovarsi in un paese da racconto di fate. Nelle catacombe, avvolte nella più completa oscurità, provò la tristezza delle antichità cristiane, mentre fu più piacevole visitare i resti grandiosi dell'epoca greco-romana: il teatro e l'Epipoli (uno dei quartieri dell’antica Siracusa nel cui punto più alto era il famoso Castello di Eurialo) la riportarono ai tempi aurei della città. Visitò il Duomo, il museo famoso per la sua Venere e Aretusa, luogo pieno di fascino al crepuscolo; poi si recò alla bocca dell'Anapo, fiancheggiato dalle folte fioriture di papiri, un fiume da fiaba, esotico come un gioiello orientale; fu così presa da una strana sensazione, una sorta d’angoscia che a poco a poco divenne tenera stanchezza, intorpidimento.
Il giorno successivo, in viaggio per Girgenti, sostò, durante il tragitto, per visitare la barocca Noto, poi Modica, posta al centro di una ricca campagna, notando che in questa parte della Sicilia il contadino non è povero, dato che coltiva la terra a mezzadria oppure lavora alla giornata con un salario che andava da quattro a sei franchi. Passò, quindi, per Ragusa, Comiso e Vittoria, dopo la quale la strada peggiorava e tutto era deserto. Era notte quando raggiunse Gela, dove pernottò; quindi, lungo la costa, si diresse a Licata e proseguì oltre, fino a Girgenti con la grandiosità dei suoi templi. La città moderna era terra di miniere, povera e non certo piacevole come Taormina o Siracusa: girovagando per le strade, la gente le parve chiusa e composta nella serie infinta dei propri lutti, il clima malsano. Si fermò un giorno solo, rimettendosi in viaggio per Selinunte: qui l'imponente e drammatica maestà dell'acropoli e lo spettacolo del mare sullo sfondo, magnifico sotto il sole morente, le ispirarono di nuovo sensazioni languide; per quella sera, però, dovette accontentarsi di pernottare nella vicina e povera Castelvetrano, in un albergo malandato.
La risollevò, il giorno dopo, il magnifico tempio di Segesta, lasciato il quale, l'accolse un paesaggio nuovo, con la meravigliosa successione degli aranci della Conca d'Oro; infine Palermo, incoronata dai monti, adagiata su un golfo incomparabile. Un giorno di assoluto riposo per riordinare le idee e rinfrancarsi dalla fatica, e quindi la visita, accurata, a cominciare dal Museo, al quale la viaggiatrice dedicò una descrizione molto attenta e competente; quindi, il giro per la città, a scoprirne le attrattive, gli edifici d'arte, i giardini e le passeggiate, in una continuità di suggestioni, tra cui le più vive al chiostro degli Eremiti, per cui scriverà: “Di tutti i giardini di Palermo, è questo chiostro pieno di fiori che mi ha incantato di più. Lo stesso disordine delle piante, il loro esuberante vigore ne fanno un luogo di sogno”. Palermo, che le era sembrata, in un primo tempo, una città dall'arte un po' barbara, se paragonata a quella della classicità, ora l’attraeva con le delizie della sua arte arabo-bizantina: ritornò alla Cappella Palatina, in un primo momento poco apprezzata, avvertendone l’abbagliante bellezza e comprendendo di essere di fronte ad un autentico capolavoro d'arte; proprio con questo spirito visitò gli altri monumenti, effettuando pure escursioni nei dintorni (S. Maria di Gesù, la palazzina cinese, le catacombe dei Cappuccini) e spingendosi fino a Solunto e Bagheria, per visitare qui le celebri ville. Dopo tale prolungato soggiorno, poté consapevolmente affermare che Palermo era una città affascinante. Ed eccola in automobile, lungo la litoranea, dirigersi di nuovo a Messina, passando per Cefalù, dove visitò il Duomo normanno; ma dopo Capo d'Orlando dovette deviare per i monti, attraversò Randazzo e giunse a Francavilla.
Manifestò allora la sua gioia di rivedere di nuovo la bella costa inondata di una luce così diversa da quella di Palermo e volle ancora riempirsi gli occhi delle meraviglie di Taormina: vi salì a piedi per meglio gustare i luoghi, rivide il teatro antico, immergendosi nella trasparenza di quei luoghi. A sera si ritrovò a Messina e l'indomani, da bordo del battello che la riportava via, mandò “un ultimo addio alla bella Sicilia”.
Quella del libro di un secolo fa della Volkonskaja è una rappresentazione intensa della Sicilia, connotata dalla presenza di tanti elementi, allora come oggi, spesso così difformi tra loro, che ne costituiscono la caratteristica e provocano in una viaggiatrice ricca di cultura e sensibilità, impressioni, sensazioni ed emozioni che riesce a trasmettere nella sua coinvolgente e spesso coloristica scrittura.
Felice Irrera