STALIN E IL PATRIARCA

di Adriano Roccucci.

Einaudi Editore, pagg.509, euro 36,00

“Non è possibile separare la storia della Chiesa russa dalla storia della Russia […] Come l'ortodossia è uno dei fattori più importanti nella storia della Russia, così anche i destini della Russia determinano il destino dell'ortodossia russa” (Aleksandr Šmeman, 1954).

Il libro di Adriano Roccucci si può leggere alla luce di questa affermazione che le vicende raccontate, dopo scrupolosa ricerca storica, non fanno altro che confermare.

Dal 1917 al 1958 la storia dei rapporti tra Chiesa ortodossa e potere sovietico è la storia stessa della Russia. Per questo il testo dello studioso italiano è quanto mai interessante, le sue pagine costruite sulla base di documenti di archivio mai studiati prima, sono una rivisitazione degli anni del bolscevismo e dello stalinismo attraverso la lente di una relazione ideologicamente impossibile, ma nei fatti molto più complessa di quanto si possa pensare.

Dalla caduta di Nicola II alla morte di Stalin, fino alle nuove persecuzioni sotto Chruščëv, la Chiesa russa è costretta a ripensarsi radicalmente, sotto la pressione di eventi epocali. Dal disorientamento per la scomparsa del ruolo catalizzante dello zar, difensore e protettore dell'ortodossia, al ritorno, dopo duecento anni di assenza, del patriarcato, definito non a caso un “incontro con il futuro alle porte”. Minacciata ogni momento di annientamento, la scelta a favore del patriarcato nel Concilio del 1917 si rivelerà “provvidenziale”; il nuovo patriarca non incarnerà soltanto un ritorno alla tradizione, colonna portante dell'ortodossia, ma anche l'unità visibile della Chiesa, il punto di riferimento dei fedeli e al tempo stesso l'interlocutore del potere civile. Una tecnica infatti adottata dai bolscevichi (Trockij ne fu uno dei principali sostenitori) per sbarazzarsi della Chiesa, fu quella di sostenere le divisioni al suo interno: “rinnovatori”, “iosifiliani”, “gregoriani”, “jaroslaviani”, furono tutte correnti che a vario titolo vennero alimentate per screditare dall'interno clero e gerarchia.

Colpire l'autorità del patriarcato, e di altri metropoliti, era lo scopo primario del lavoro dietro le quinte delle varie polizie segrete, molto più efficace di qualsiasi propaganda antireligiosa. Nonostante tutto, alla morte del primo patriarca russo, Tichon, fu evidente che quell'autorità ancora resisteva; si calcola che in più di trecentomila presero parte ai funerali del prelato a Mosca nell'aprile del 1925, tra cui 56 vescovi e più di 500 preti. E per questo fu deciso di non permettere l'elezione di un successore.

Il Patriarca Tichon

Decapitata ai vertici, squarciata ma non piegata dalle divisioni, la Chiesa russa dimostra grande vitalità ancora nel suo “terreno” storico, quello rurale. Campagna e Chiesa erano entrati nei secoli in una simbiosi per molti aspetti estranea all'occidente. Il contadino russo, il muzik non è un clericale, non idealizza e non è affatto sottomesso al pope del villaggio, ma al contempo la chiesa, con le sue mura le sue icone le sue liturgie, rimane centrale nel suo universo. Nel 1929 i risultati di un censimento, che rimangono segreti, sono sorprendenti: l'80% della popolazione sovietica si dichiara credente. I bolscevichi erano nati e rimanevano un partito “squisitamente urbano, ignorante della realtà delle campagne”. La collettivizzazione delle campagne negli anni successivi porrà fine ad una civiltà secolare, la Russia si trasformerà (non diversamente da altri stati “moderni”), in brevissimo tempo, da società prevalentemente rurale a società urbanizzata. La lotta contro il kulak, il contadino ricco, sarà, direttamente o indirettamente, la lotta contro il pope; l'accetta della repressione il più delle volte non farà distinzione. Nel censimento del '37 tuttavia, rimane sopra il 50% la popolazione che si dichiara ufficialmente credente. Il Grande Terrore del biennio 37-38 liquiderà tra gli altri decine di migliaia di religiosi e la Chiesa istituzione verrà ridotta ai minimi termini. E' l'alba della Seconda guerra mondiale...

Nella prospettiva persecutore-perseguitato, si può pensare che quest'ultimo approfitti della difficoltà dell'oppressore per schierarsi con i suoi nemici. Niente di più lontano dalla storia della Chiesa russa, che all'indomani dell'invasione tedesca chiama i credenti alla difesa della patria, pur non nominando mai il governo e l'Unione Sovietica. Impensabile un'altra opzione che non fosse quella di condividere il destino del proprio “gregge”. Il messaggio del metropolita Sergij, locum tenens del trono patriarcale vacante, inviato alle parrocchie il 22 giugno 1941, seguito da molte altre lettere dello stesso tono, è eloquente di una scelta senza tentennamenti; nei giorni tragici della prova la Chiesa torna/rimane punto di riferimento per molti; la notte di Pasqua del 1943 le chiese sono straripanti, le autorità osservano e non ostacolano. E' in questo clima che in un'altra notte, quella tra il 4 e 5 settembre dello stesso anno Stalin convoca al Cremlino il metropolita di Mosca e Kolomna, Sergij, il metropolita Aleksij di Leningrado e Novgorod e Galič Nikolaj, metropolita di Kiev. Si dice pronto a venire incontro alle esigenze che gli verranno manifestate, fa le sue offerte. Quella notte rinasce il patriarcato di Mosca, inizia una fase totalmente nuova per la Chiesa, che ottiene una sorta di libertà vigilata.

Georgij Karpov

Il compito di curare relazioni Stato-Chiesa viene affidato al Consiglio per gli affari della Chiesa ortodossa, al cui vertice viene posto Georgij G. Karpov, l'uomo che per quasi due decenni medierà tra spinte opposte, anche all'interno stesso dei vertici sovietici. La svolta pro-chiesa infatti non è capita e condivisa da chi fino al giorno prima sapeva che essa era un residuo del passato la cui fine andava accelerata. Vengono accolte molte richieste di riapertura di chiese, ma molte vengono respinte e non di rado capita che ne vengano chiuse altre, soprattutto quelle aperte nelle zone occupate dal nemico durante la guerra.

Fino al 1958 la Chiesa vedrà una progressiva rinascita. Nasce un clero nuovo, giovani, in grado di adattarsi con maggiore facilità alla realtà sovietica in cui sono cresciuti fin da piccoli. Il patriarcato di Mosca riacquista anche prestigio internazionale e diventa per questo una carta da giocare oltreconfine, specialmente nei paesi a prevalenza ortodossa La svolta di Stalin fu dettata probabilmente da un lungimirante pragmatismo: la Chiesa Ortodossa Russa poteva servire per acquisire consenso e fare da contraltare all'uso delle chiese fatto in occidente in chiave anticomunista, in primis della Chiesa Cattolica di Roma.

La gerarchia ortodossa ne è cosciente e sa di dover stare in equilibrio tra fedeltà alla sua natura, al suo mandato evangelico e il ritorno alle persecuzioni dirette e violente. Il compromesso divenne una questione vitale, lo era stato anche nei decenni precedenti, a costo di “condannarsi alla vergogna del mendace”; emblematica in tal senso la dichiarazione fatta da Sergij davanti alla stampa straniera nel 1930 : “la Chiesa ortodossa non è perseguitata dal governo sovietico”; una dichiarazione di falsità per tentare di salvare il salvabile, che genera sconcerto. I patriarchi Tichon, Sergij, Aleksij furono tuttavia guide autorevoli che godettero di grande stima tra i fedeli, giganti che seppero umiliarsi, anche davanti al proprio gregge. Testimoni pronti ad essere considerati infedeli al proprio mandato, pur di salvare la Chiesa.

Impedita a svolgere qualsiasi attività esterna, la Chiesa ortodossa si appigliò ad un'altra colonna portante della sua identità: la divina Liturgia, intesa non come mero rito ma come luogo che rende visibile la presenza di Dio come bellezza. La Liturgia fu lo spazio vitale del credente che in una realtà apertamente ostile come quella sovietica divenne luogo totalmente altro, icona di una fede che non può essere proclamata, annunciata.

Il Patriarca Aleksij

Non a caso il Metropolita Nikodim, già responsabile delle relazioni esterni del patriarcato, ebbe a dire ad un interlocutore straniero: “Voi pensate che facciamo troppi compromessi? Ebbene se ci chiuderanno tutte le chiese, se ci impediranno tutti gli assembramenti, se ci smantelleranno tutte le strutture, tutto questo lo accetterò. Chiederò soltanto un'unica cosa: che ci lascino celebrare l'ultima divina Liturgia... Perché, anche se non sussiste più niente, sono certo che da questa unica, ultima divina Liturgia, tutto potrà risorgere. Per il resto non voglio oppormi e contrastare: la storia ci dirà se questo è debolezza o se è, invece, fede fino alle ultime conseguenze”

Lo stato di salute della Chiesa post-sovietica oggi è la risposta più eloquente a quella domanda. Prestigio e autorità sono cresciuti in maniera esponenziale pur tra tante problematiche ancora non risolte... Ma questa è un'altra storia che Roccucci non ci può raccontare, la sua analisi si ferma al 1958, un anno che segna l'inizio di una nuova offensiva antireligiosa. La gestione Chruščëv sbarazzatasi dell'eredità pesante di Stalin, si sbarazza anche della sua politica religiosa. Si torna a chiudere le chiese...

Il libro di Roccucci è molto di più di quello che abbiamo qui brevemente accennato. E' un tentativo di capire e di spiegare realtà facilmente travisabili non solo perché complesse, ma perché appartenenti ad una tradizione, quella orientale e russa in particolare, che il lettore occidentale fa fatica a comprendere perché assenti o quasi scomparse dal proprio orizzonte. Ad esempio il monachesimo, che invece ancora oggi è l'anima dell'ortodossia, una sorta di serbatoio spirituale, che alimenta gerarchia e popolo. I vescovi sono tutti monaci e i monasteri sono meta di ogni ricerca spirituale. “Stalin e il Patriarca” è un'opera fondamentale per studiosi e semplici curiosi, una rarità – ci fa piacere affermarlo - nel triste e scialbo panorama della nostra editoria che si occupa di Russia.

Giuseppe Iannello