GHIACCIO
di Vladimir Sorokin.

Ed. Einaudi, pagg.328,euro 16,50.

Nonostante “Ghiaccio” sia appena il secondo romanzo di Vladimir Sorokin pubblicato in Italia - e la comparsa nelle librerie del primo, “La coda” (del quale su Russianecho è possibile leggere l'interessante postfazione alla prima edizione scritta dal traduttore Pietro Zveteremich) risalga addirittura al 1987, Sorokin è oggi uno dei più conosciuti scrittori russi, famoso in patria e tradotto e apprezzato all'estero, particolarmente in Francia e in Germania.
Piu' volte finalista del “Booker Prize”, il più prestigioso riconoscimento letterario russo, con il romanzo di genere fantastico-fantascientifico "Lardo azzurro" (1999) ha attirato su di sè l’attenzione di un vasto pubblico, soprattutto quello giovanile, sia in positivo che in negativo, tanto da essere votato e “scelto” come ospite d’eccezione all’interno della casa del “Grande Fratello” russo, ma anche denunciato per pornografia - con grande scalpore mediatico - dal movimento giovanile Iduščie vmeste ("Andando insieme") nel 2002. Difficile pensare che le sue opere abbiano un contenuto davvero così scandaloso da giustificare il processo tenuto a suo carico a causa di queste accuse, ma una cosa, comunque, è sicura: Sorokin è uno scrittore che ha fatto e fa discutere, ed è un peccato che in Italia abbia avuto così poca attenzione da parte delle case editrici.
“Ghiaccio”, ad esempio, è un romanzo intrigante e godibile che si muove fra il verosimile e il grottesco, con Sorokin che gioca a sconvolgere le consuete categorie del “bene” e del “male” in cui il lettore è inconsciamente abituato a catalogare fatti e protagonisti. In breve, la storia: in una Russia abbandonata alla violenza e al degrado, in cui una variopinta fauna umana lotta per la sopravvivenza, dal banchiere arricchitosi in fretta ai piccoli mafiosi, dalla prostituta senza futuro al nazionalista fissato con la cura del fisico, e poi tossici, nullafacenti, internettari, patiti di hard-rock e dediti alla vita notturna, una setta cerca i suoi adepti, inconsci portatori di un misterioso potere, quello di poter comunicare con il cuore con gli altri simili. La procedura per “scoprire” gli eletti è bizzarra e crudele: i potenziali nuovi adepti vengono rapiti e il loro corpo percosso all’altezza dello sterno con un martello di ghiaccio - il ghiaccio di Tungurska, luogo ben conosciuto agli appassionati di ufologia per un meteorite cadutovi nel 1918 - finché il loro cuore non comincia a emettere dei suoni o smette di battere definitivamente...
Ci penserà l'anziana Varvara a guidarci nei meandri di questa strana vicenda, in un racconto in prima persona che è il cuore del romanzo, intrecciandosi di continuo con la storia di un paese in cui l’orrore è entrato per decenni a far parte della quotidianità, e anche della normalità, e che la vedrà trasformarsi, nel corso delle pagine, da dolce ragazzina di campagna a terribile realizzatrice di un “compito” ultraterreno.
Il finale, però, pur proiettato in un futuro ipertecnologico in cui sofisticati marchingegni si sostituiscono alle mazze di ghiaccio per riportare alla vita gli ultimi prescelti, sembra un richiamo alla realtà: forse lo scopo della setta è stato raggiunto con successo, forse è stato tutto un sogno, ma gli uomini, per un pò divenuti inconsapevoli vittime di un caso del destino, tornano ad essere, negli occhi e nelle mani di un bambino, unici padroni di un mondo il cui futuro resterà un’incognita.

 

Marcello Brignone


Per conoscere più da vicino Vladimir Sorokin, vi proponiamo, con l'occasione, il link a un'intervista del 2003 concessa dall'autore al traduttore di "Ghiaccio", Marco Dinelli, per la rivista e-Samizdat:

"Se fossimo soltanto sogni piacevoli, ci annoieremmo" ;

e uns splendido brano dedicato a Mosca, anch'esso rintracciato sulla rete, tratto dal libro "Mosca, una città in attesa", a cura di Anne Coldfey-Faucard e Luba Jurgenson (1990, Cappelli Editore), dal titolo:

"Gli zombi di periferia"


GLI ZOMBI DI PERIFERIA

Dove i nuovi quartieri sono, per l'intellettuale moscovita, ciò che è il Tibet per i Lama.

 

di Vladimir Sorokin.

I nuovi quartieri di Mosca hanno nomi che finiscono in «vo»: Beliaievo, lassenevo, Certanovo, Novoghireievo, Medvedkovo, Biriuliovo, Orekhovo-Borissovo, Bibirevo, Golianovo... E non posso fare a meno di associare questa desinenza all'esclamazione popolare «vo!!!» (ma guarda un po'), in cui si combinano stranezza e minaccia, servilismo e buffonaggine, in breve tutto ciò che costituisce l'essenza della mentalità contadina che nel nostro Paese resta predominante. Sarebbe, in fondo, piuttosto giusto vedere nella Russia d'oggi un Paese di contadini urbanizzati: la maggior parte delle città sovietiche è in effetti popolata da contadini che, negli ultimi cinquant'anni, hanno levato l'ancora dai loro villaggi in decomposizione per affluire nelle città.

Mosca, se la si giudica dai suoi nuovi quartieri che, a partire dal dopoguerra, sono cresciuti come funghi, essenzialmente per ospitare questi sradicati, non fa eccezione alla regola. Le loro dimensioni sono letteralmente agghiaccianti. Riuniti, tutti questi Medvedkovo-Biriuliovo potrebbero contenere tredici volte la Mosca di un tempo, racchiusa nei confini della Cintura dei Giardini. Comicamente i nuovi quartieri sono ufficialmente definiti «microsettori». E un'immensa parte di essi è abitata dai contadini di ieri, che, fuggiti a testa bassa dalla vita di miseria dei kolkhoz, si sono fatti assumere nelle officine di Mosca e dopo lunghi anni di pesante lavoro, hanno ottenuto la propiska [registrazione; diritto di residenza] dei loro sogni, che permetteva di accedere permanentemente (ma davvero permanentemente?) al salame, al burro, alla carne.

I nuovi quartieri della maggior parte delle città sovietiche si somigliano fino alla nausea. Di regola, si tratta di «edifici-tipo» costruiti su terreni incolti o destinati a sostituire villaggi rasi al suolo. Questi stabili-conigliere edificati rapidamente (in un arco di tre-cinque anni), hanno in comune un'assenza totale di ricerca architettonica e si differenziano solo per il numero di piani, che cambia contemporaneamente ai dirigenti del potere, ma continua a progredire costantemente: quattro all'epoca di Krusciov, sei e otto sotto Breznev, poi quindici e anche ventitré. Le battute sull'anonimato e l'uniformità dei nuovi microsettori sono innumerevoli. Come questa strofa, popolare un tempo tra i conducenti di tassi:

Ti condurrò nella tundra / e anche a Ivanovo. / Ti condurrò dove vorrai, / ma non a Certanovo.

E, in effetti, non è difficile perdersi nei nuovi quartieri. Un film di Riazanov è basato su un fatto curioso ma vero: il protagonista, che vive a Mosca, in via della Costruzione (romantico, non è vero?), si ritrova, completamente ubriaco, in un aereo per Leningrado; là, ridiventato lucido, sale in un tassi, da il suo indirizzo al conducente che lo sbarca in una via della Costruzione in tutto e per tutto identica a quella di Mosca. Anche lo stabile è lo stesso. Perfino le chiavi, che aprono la porta dell'appartamento...

L'INVASIONE DI MOSCA

I nuovi quartieri di Mosca sono essenzialmente abitati da limitciki - persone che sono fuggite dalla provincia e si sono fatte assumere nelle industrie moscovite con un «limite», cioè per due o tre anni, senza il diritto di optare per un'altra ditta; di solito, dopo circa sette anni di inferno negli alloggi dei lavoratori, essi formano una famiglia e ottengono, grazia suprema dello Stato, un appartamento individuale, lontano, in una periferia atroce, per esempio a Lianozovo. I limitciki sono considerati, a Mosca, come esseri inferiori. I moscoviti li squadrano con disprezzo, a causa della loro aria da bifolchi, del loro accento provinciale e anche delle mostruose file d'attesa nei negozi, che, senza di loro, sarebbero sicuramente dieci volte più corte.

«Hitler non è riuscito a prendere Mosca, i limitciki sì!», scherzano malignamente i moscoviti.

«E da lì che vengono le nostre disgrazie» dicono spesso, durante le code, i moscoviti di mezza età.

Tuttavia, va detto che i limitciki stessi, dopo aver trascorso cinque anni a Mosca, si sentono totalmente moscoviti e cominciano a insultare i nuovi arrivati, a definire «canaglie» dei giovani che forse sono nati nel loro stesso villaggio.

Di fatto, i limitciki non sono un fenomeno recente. I primi sono comparsi a Mosca a metà degli anni '30. Erano, per la maggior parte, impiegati nella costruzione della metropolitana, nelle industrie e in altri edifìci amministrativi - altrettante realizzazioni definite, all'epoca, «cantieri della Gioventù comunista». Ormai divenuti anziani, essi raccontano gli orrori e i sacrifici che hanno dovuto sopportare per avere il diritto di abitare in un appartamento con l'acqua calda e di comprare al negozio delle galline di Ungheria. Ad esempio, i genitori di uno dei miei amici, che erano fuggiti dal kolkhoz alla fine degli anni ’30 e avevano trovato lavoro alla ZIL, la grande fabbrica di automobili, non avevano potuto ottenere neanche una camera in un alloggio per lavoratori. Allora hanno corrotto il gestore di un immobile, scavato una cantina con il suo permesso e lì sono vissuti in sei, senza alcun comfort, fino al 1955. Stranamente, il mucchio di terra che hanno prodotto durante questi lavori è ancora lì, vero e proprio monumento alla loro ostinazione contadina. Un’altra famiglia, formata da quattro persone, è vissuta per diciotto anni in una stanza dell’alloggio per lavoratori dell’industria in cui lavoravano, con la figlia che, fino all’età di diciassette anni, ha condiviso il letto con sua madre.

Ma, per quanto riguarda le difficoltà, i limitciki di oggi non hanno nulla da invidiare ai loro predecessori. Un film documentario uscito di recente e intitolato Limita [sinonimo di limiticiki], in cui gli autori presentavano alcune scene di vita dei limitciki, ha letteralmente sconvolto i moscoviti: sullo schermo, dei giovani raccontavano la loro esistenza di schiavi, le angherie inflitte dal caposquadra dell'industria in cui lavoravano («si è formato un harem di limitciki-donne»), i furti quotidiani negloggi per i lavoratori, la prostituzione, l’alcoolismo, la tossicomania (aspirano colla, benzina, diversi prodotti di drogheria...) e tutto questo per vivere nella capitale...

L'EDIFICIO IN SE STESSO

Tuttavia i limitciki non sono i soli ad abitare nei nuovi quartieri. L'intellighenzia si ritrova lì a poco a poco, insieme a persone seli alloggi per i lavoratori, la prostituzione, l’alcoolismo, la tossicomania (aspirano colla, benzina, diversi prodotti di drogheria...) e tutto questo per vivere nella capitale...

L'EDIFICIO IN SE STESSO

Tuttavia i limitciki non sono i soli ad abitare nei nuovi quartieri. L'intellighenzia si ritrova lì a poco a poco, insieme a persone semplicemente agiate (che si occupano principalmente di commercio), che comprano dallo Stato un appartamento cooperativo.

Ci vivo anch'io - a lassenevo -, in uno stabile cooperativo di quindici piani, a soli cinquanta metri dalla Cintura di Circonvallazione che divide implacabilmente il mondo tra Mosca e non-Mosca. Una volta superato questo stretto nastro d’asfalto, si trovano già le foreste di betulle dei dintorni di Mosca; comincia la non-Mosca, ovvero la Russia e il suo spazio non moscovita (neve, neve ancora neve), il suo tempo non-moscovita (l’eternità, il nulla del tempo), i suoi problemi non-moscoviti (dove scovare del salame?).

Passeggio raramente nel mio quartiere, preferisco attraversare la strada e andare nella foresta, da dove le scatole bianche degli edifici, ammucchiate le une contro le altre, appaiono particolarmente estranee. Ma oggi, ho un pretesto per una passeggiata a lassenevo. Mi vesto pesantemente e prendo l’ascensore. Fuori si gela (siamo alla fine di novembre ), nevica e c’è vento (c'è sempre vento a lassenevo, la zona più elevata di Mosca). Su una panchina ghiacciata, all'ingresso dello stabile, sta, rigida come una statua, un'anziana donna con un bastone. Di queste vecchie immobili, ce n'è una ad ogni ingresso. Con ogni tempo, esse escono dalla loro tana per «passare un momento di fronte alla casa», perpetuando così l'usanza contadina ereditata dalle loro nonne che, cinquant'anni fa, appoggiate ai loro bastoni, facevano delle lunghe soste sullo scalino d'ingresso della loro isba, individuando e seguendo con lo sguardo, senza dire neanche una parola, ogni passante.

Supero la nonna e imbocco il cammino tortuoso che costeggia gli stabili. In pieno pomeriggio, la gente che va a passeggio è rara. Molta neve, invece, ghiaccio e bambini che fanno crollare con gran rumore un monticello gelato. Neve e muri di edifici, muri di edifici e neve. Mi inerpico sulla collina e getto un'occhiata al panorama. La prima idea che si forma quando si guardano queste costruzioni è che esse siano state costruite non da uomini, ma da una macchina statale senza volto. I grattacieli stalinisti producono la stessa impressione, soprattutto l'Università, grandioso monumento dello stalinismo. Ogni volta che vado a passeggio sui Monti Lenin, mi dico, assiderato, che no, decisamente, quest'edificio non è stato creato da uomini né per gli uomini, ma piuttosto dallo Stato e per lo Stato. E questa sensazione mi abbandona solo progressivamente, man mano che mi avvicino all'Università, quando scorgo finalmente delle minuscole finestre, un'entrata nascosta dietro le colonne e, ormai quasi sul posto, degli uomini-formiche. Che peccato che della gente vi studi! Sarebbe molto meglio se l'edificio esistesse per se stesso e in se stesso, senza nessun essere umano, temibile simbolo di pietra dello Stato stalinista, una sorta di Ding an sich [In tedesco, l'espressione, specifica del linguaggio filosofico, significa «cosa in sé»]...

È vero che gli edifici di lassenevo non hanno la solennità dei colossi di Stalin, ma sono anch'essi costruiti dallo Stato e non dagli uomini, dal momento che mai questi ultimi avrebbero edificato qualcosa di simile per se stessi. No, è lo Stato l'autore; tuttavia, non li ha eretti per sé, come l'Università, ma per il popolo. Questa architettura infernale mostra molto bene che l'uomo non è considerato, da noi, come individuo, ma come parte di una massa biologica battezzata «popolo» e che Io Stato tratta come un panettiere la sua pasta da pane, torcendola, stendendola, dandole la forma che più gli piace...

NEL REGNO DEI MORTI

Scendo dalla mia collina e mi dirigo verso il negozio di alimentari, l'unico e solo della nostra via Odoievski, dove vivono circa ottomila persone. È un negozietto di vecchio tipo, senza casse per il pagamento, ma con tre venditrici sonnolente, al punto che le si direbbe congelate nei loro camici di un bianco sporco, infilati su grossi pullover (è vero che fa piuttosto fresco). Al di sopra del banco, un manifesto sbrindellato, che rappresenta Lenin nell'atto di scrivere. Sullo stesso banco, dei pesci conservati, margarina, un inverosimile salame e un enorme cubo di burro giallo. Nel settore panetteria, degli scaffali di legno scheggiato, vuoti, e una commessa che legge la «Pravda».

«Non c'è pane?» chiedo, stupidamente.

Senza alzare la testa ne muovere un solo muscolo, la commessa biascica, alla fine di un lungo silenzio: «Lo consegnano alle cinque».

I compratori, in quattro, formano una fila muta nel settore macelleria. Come ipnotizzati, guardano la venditrice dai gesti lenti come quelli di una sonnambula, tagliare un pezzo di quel salame indefinibile, posarlo su di una bilancia antidiluviana, aggiungere un contrappeso e seguire con occhio torvo l'ago oscillante.

«Un rublo e venticinque», sembra dire a se stessa, poi riprende il pezzo di salame dalla bilancia e lo avvolge, senza fretta, in una spessa carta marrone. Le si da il danaro, lo prende senza guardare l'acquirente e, allo stesso modo, porge il salame.

Tutto qui sembra fossilizzato, come se i presenti fossero altrettanti defunti usciti dalla bara per compiere un rito strano quasi inutile. Tutto sembra sprofondato in un sonno prolungato, interminabile. Un inserviente dal viso tondo e gonfio, vestito con una giacca imbottita sporca, entra spingendo un carrello contenente cartoni di latte; è l'ultimo tocco a questo quadro fantomatico. Perché lo fa? Impossibile dirlo. E perché proprio del latte? Al suo posto starebbero ugualmente bene delle teste umane congelate o dei pupazzi di metallo ghignanti. Il suo viso consunto dall'alcool è morto, inerte. L'inserviente abbandona il latte, fa dietro-front e se ne va.

Esco dal negozio e, per la strada, il contatto con la natura russa, fredda, gelata, rafforza ulteriormente in me l'impressione che intorno la vita sia finita. E mi ritorna in mente Sologub [Poeta simbolista (1863-1927); celebre autore del romanzo "Il demone meschino".]:

"La strada era morta, le case apparivano ricoperte da un sudario brillante, sontuoso e crudele, simile ai drappi di broccato d'argento di una bara di lusso, là dove i raggi del sole colpivano la neve."

Cammino nel regno dei morti. Ed ogni arbusto, l'angolo di ogni casa, ogni donna anziana sulla sua panchina mi conferma che ho guardato il fiume Lete.

Ma perché non ho paura? Perché non sono più vivo di quella vecchia immobile, di quell'inserviente dal viso gonfio, di quegli acquirenti che facevano la fila. Sono morto, anch'io, perché sono nato e cresciuto qui, tra queste nevi senza vita, sotto Io sguardo implacabile di uno Stato senza misericordia. Sono un abitante legittimo di questo regno, partecipo a questa vita inumana e ai suoi cupi rituali... Oltrepasso un intero gruppo di immobili. Il crepuscolo viene a concludere la breve giornata invernale, si accendono sporadici riverberi, il grande momento del giorno si avvicina - le diciotto, l'ora di punta, quella in cui gli abitanti di lassenevo rientrano dal lavoro. Le fabbriche di Mosca chiudono alle 17, ma per ritornare dalla ZIL, o da altri luoghi, fino alla nostra lontana terra promessa, bisogna calcolare circa un'ora di viaggio.

Non c'è ancora la metropolitana per lassenevo, la stazione più vicina è quella di Tioply Stan, da cui partono, in questo momento, verso tutte le direzioni, autobus che avanzano a fatica, strapieni. Mi piazzo alla fermata di Via Golubinskaia, aspetto circa un quarto d'ora ed ecco apparire la prima rondine che annuncia l'ora di punta, eccolo, il primo autobus arancio, con i fianchi inzaccherati di neve. Avanza a fatica e si ha paura di guardare nell'interno dove, come aringhe in un barile, si accalca gente sfinita.

L'autobus si ferma, le porte si aprono cigolando e la massa biologica grigio-bruna si riversa sulla neve. Arriva un secondo autobus, poi un terzo e mi trovo, ben presto, al centro di una folla compatta, che, con un'ostinazione muta, si muove verso l'edificio illuminato del supermercato, oasi di speranza nelle tenebre degli stabili coperti di neve. Nella folla, i volti si confondono - limitciki, intellettuali, studenti - e vi si leggono soltanto stanchezza e disagio.

All'ingresso del supermercato, si opera una divisione tra i sessi, rapida e silenziosa: le donne si precipitano nel settore alimentare, gli uomini in quello dei vini, che, grazie alla campagna anti-alcoolismo, è ormai stato separato. In quanto uomo, mi dirigo automaticamente anch'io in quel settore, osservando attraverso la vetrina le donne che si gettano sui pacchetti di salame, burro, formaggio, che sgraffignano cavoli o sacchetti di patate sotto il naso di quelle che stanno lì con la testa fra le nuvole.

La coda degli acquirenti nel settore dei vini - un centinaio di persone - si snoda attorno ad un monticello di casse per legumi rotte, si arrampica verso le grandi porte di ferro spalancate. Nei gesti della gente, lo stesso automatismo di morte. La fine della coda è quasi immobile, il vento è freddo, l'oscurità e la neve accentuano l'aspetto di cadaveri gelati di coloro che attendono; è solo avvicinandosi alla porta al di là della quale si trovano tutti i loro desideri che gli acquirenti cominciano a sgelarsi, a muoversi mollemente, a spingersi perfino a rubacchiare qualche cosa, ma questa agitazione improvvisa non li rende comunque più vivi, anzi essa sottolinea la loro inerzia, la loro indifferenza, il loro distacco da se stessi. Sulla soglia della porta, un blando litigio; le voci sono basse, voci d'oltretomba.

«Che spingi a fare, porco Dio?». «Ma insomma, ero prima di te!». «Assolutamente noi Tu non hai fatto la fila!» «Sono un invalido di guerra.». «E allora? Io ero con i partigiani. Ferito due volte!». «Ehi, ragazzi, non lasciate passare nessuno che non sia stato in fila! Ci sarà vino per tutti.». «Tentar non nuoce! Tieni, fuma!».

Superando ogni difficoltà, respingendo gli assalitori, dei fortunati tornano indietro dal luogo dei loro sogni stringendo fra le braccia delle bottiglie di infame vinaccio.

«Cosa vendono oggi?». «Del vino a tre rubli». «Ce n'è anche per noi?». «Ne restano due casse.»

DICHIARAZIONE D'AMORE

La strada piena di neve, le sagome scure, le bottiglie che mandano smorti luccichii; nella notte, il freddo. E tutte le sere è la stessa cosa, da anni, da decine di anni. Ciò non toglie che in un certo qual modo, questo mi riscaldi il cuore. Perché? Perché tutta l'esperienza dell'avanguardia letteraria e artistica di Mosca dimostra che gli autori emarginati non potrebbero trovare luogo di residenza migliore di questi nuovi quartieri, di queste zone immerse nel nulla come il mio lassenevo, dove, attorno al loro tavolo di lavoro o al loro cavalletto, si estendono per chilometri intorno, le nevi, l'assenza di tempo e il vuoto sociale dove nulla li distrae dal loro compito.

Ma non è pesante, alla lunga, vivere in queste zone senza vita? E pesante per colui che si accontenta di vivere Per chi crea, invece, questo vuoto è appagante, permette di concentrarsi. Non c’è luogo migliore per osservare la società e questi nuovi quartieri sono, per gli artisti emarginati, come le cime tibetane per i Lama: si vede lontano, si capiscono molte cose. Senza contare, poi, che si tratta di settori di isolamento in cui ci si sente al riparo dalla vita reale, *viva*, al riparo dalla cultura ufficiale, dalle speranze e dalle illusioni.

Nei nuovi quartieri vivono Kabakov, Prigov, Monastyrski, Syssoiev, Cuikov, Gundlakh, Zvezdocotov, Gorokhovski, Ovcinnikov, Zakharov, Volkov, Anufriev, Pepperstein, Gandlevski, Popov, Baitov, Bakstein, Jigalov, Abalakova, Albert, Stolpovskaia, Roshal, Shablavin, Sukhotin, Lebedev, Orlov, Panitkov, Barach.

E questo li ha aiutati? Indubbiamente. In questi ultimi quindici anni hanno creato opere notevoli, sia nel campo artistico che in quello letterario, hanno praticamente resuscitato l'avanguardia moscovita annientata da Stalin all'inizio degli anni '30.

E tu? Il tuo lassenevo ti è stato di una qualche utilità? Ma certamente! Ho scritto sei libri. Se avessi vissuto al centro di Mosca, ne avrei scritti tre volte di meno. Allora sei riconoscente a questo freddo e a questi edifici-conigliere? Si sono riconoscente a questo freddo e a questi edifici-conigliere. Ti piacciono queste panchine ghiacciate e le eterne donne anziane che vi seggono? Sì, mi piacciono queste panchine e le eterne donne anziane congelate. Ti piacciono anche gli scaffali vuoti dei negozi? Mi piacciono gli scaffali vuoti dei negozi. I cumuli di neve all’ingresso degli stabili e i cadaveri ambulanti? Sì, mi piacciono i cumuli di neve, il ghiaccio, i cadaveri ambulanti, l'assenza del tempo. Per dirla con poche parole, ti piacciono i nuovi quartieri di Mosca? Ebbene sì, mi piacciono i nuovi quartieri di Mosca. T piace lassenevo? Mi piace lassenevo. Ti piace Beliaievo. Mi piace Beliaievo. E Certanovo? Sì, Certanovo. E anche Biriuliovo. Ti piacciono Novoghireivo, Medvedkovo, Orekhovo-Borissovo? Mi piacciono Novoghireivo, Medvedkovo, Orekhovo-Borissovo, Bibirevo, Golianovo. Mi piaccono Bykovo, Orlovo, Vasnetsovo. Mi piacciono Kabakovo, Frigovo, Syssoievo, Nekrassovo, Jigalovo, Monastyrskoio. Mi piacciono Shablalovo, Lebedevo, Baksteinovo. Mi piacciono Baitovo, Bulatovo, Cuikovo, Popovo. Mi piacciono Erofeievo, Sakharovo, Panitkovo [Nomi costruiti su quelli degli artisti, amici dell’ autore, citati in precedenza, o di personalità conosciute.].

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