Vi proponiamo i testi degli interventi di Alexandra Voitenko e i video delle letture di Gianni Di Giacomo in occasione della "Serata con Anton Cechov" svoltasi a Messina il 23 aprile 2010 in occasione del 150° anniversario dalla nascita dello scrittore.

Anton Cechov è uno degli scrittori europei più straordinari, che tuttavia forse non ha mai avuto il riconoscimento che meritava. Spesso Cechov fu considerato come un discendente minore dei grandi romanzieri russi dell’Ottocento, quasi un epilogo di quel secolo. Per il secolo ventesimo, invece, Cechov apparve come un vecchio realista-impressionista fuori tempo. In Russia nella letteratura aveva fatto irruzione il cosiddetto “Secolo d’argento”. Si sperimentano nuovi modi di vedere e descrivere il mondo – il simbolismo, il futurismo, l’acmeismo…

Ma Cechov non fu abbagliato dalle nuove idee, restò sempre quello che era - uno scrittore antiromantico, lucido, impietoso. Ironico, satirico, scrisse moltissimi racconti brevi che egli stesso chiamava ingenuamente “umoristici”, e che invece rappresentavano analisi profonde e oneste della realtà, eseguite con precisione chirurgica. Non dimentichiamo che Cechov era un dottore, un medico.

Il nonno dello scrittore era un contadino della gleba che riuscì a riscattare se stesso e la sua famiglia. Il padre di Cechov era una persona profondamente credente, possedeva una piccola attività commerciale, ma successivamente cadde in miseria. Cechov si laureò presso l'Università di Mosca, diventando appunto medico. Ma già sin dagli anni dello studio universitario la letteratura era diventata la sua attività principale. Gli piaceva ripetere: “Ho una moglie e un’amante – la medicina e la letteratura. Quando mi annoio con una, vado dall’altra.”

 

Cechov era una persona allegra e ironica, possedeva un acuto spirito di osservazione, una capacità di cogliere nelle persone i piccoli particolari, i dettagli che potevano esprimere l'indole di una persona. Essendo ancora studente, cominciò a collaborare con le riviste satiriche, per le quali scriveva dei piccoli racconti umoristici. Ma già in questo primo periodo, oltre la risata bonaria e l’ironia sottile (ma buona), in Cechov si scorgono alcuni elementi più profondi, quei motivi più “seri” che segneranno le sue opere successive.

Grazie alla sua perspicacia e allo spirito di osservazione Cechov ci ha lasciato una carrellata di immagini, di schizzi sull’intellighenzia russa, sui commercianti, sui medici, sugli attori, gli impiegati, gli insegnanti: tutti sofferenti per deficit di spessore spirituale della vita, afflitti da nevrastenia, da svogliatezza, sofferenti per l'incapacità di sentire propria la vita del popolo, del paese.

Cechov non divideva l’intellighenzia progressista dal popolo arretrato, come facevano molti suoi contemporanei, li vedeva come un'unica cosa: "Tutti facciamo parte del popolo...", diceva spesso. Cechov condannava senza compromessi la bigotteria spirituale, e non aveva nessuna importanza, a quale ceto appartenesse il suo portatore. La radice della bigotteria spirituale non si trovava in un gruppo sociale determinato, bensì nella precarietà e nella vanità della natura umana, era ciò che trasformava tutta la vita di una persona in una farsa ipocrita e volgare. Cechov sentiva acutamente come la civiltà antispirituale, materialista, consumista, svuotava letteralmente l’anima della persona, rendendola impersonale.

Lo scrittore non accettava il sovvertimento di tutti i valori. Tutti i criteri, etici, sociali, estetici, filosofici e religiosi venivano posti sotto la lente del dubbio oppure venivano rifiutati dalla ragione critica. L’equilibrio era stato violato, il significato dell’esistenza era stato distrutto, e nel frattempo né lo sviluppo dell’istruzione né le conquiste della scienza né il trionfo brillante della tecnica avevano portato nulla di bello, nobile, moralmente stabile nella sommaria esistenza umana. La civiltà e il progresso non solo non avevano eliminato le barbarie spirituali, ma avevano reso la vita ancora più barbara. Scrittore onesto e pensante, Cechov non poteva non rendersi conto che il mondo stava sull’orlo di un abisso senza fondo. Lo scrittore non vedeva una via d’uscita, non sapeva se la cultura, quella vera e profonda sarebbe riuscita a sopravvivere all’assalto dei “barbari civilizzati”.

E tuttavia Cechov credeva nella provvidenza Divina che in qualche modo sarebbe riuscita a tirare fuori la sua patria da quella via senza uscita nella quale si era trovata per il volere del destino. Nel monologo conclusivo di Sonja che cerca di consolare il povero e stanco di vivere, zio Vanja (nell'omonima opera teatrale) Cechov dice attraverso il suo personaggio: “Vivremo. Vivremo una lunga, lunga fila di giorni, di lente serate: sopporteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà; lavoreremo per gli altri, e adesso e nella vecchiaia , senza riposo, e… moriremo umilmente, e di là, oltre la tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, … e Dio avrà pietà di noi e io e te, zio, vedremo una vita luminosa, bella, incantevole, conosceremo la gioia, e guarderemo alle nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso…, e riposeremo. Sentiremo gli angeli, vedremo il cielo che sfolgorerà di diamanti, vedremo tutto il male della terra e tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che inonderà il mondo…e la nostra vita diventerà serena, tenera e dolce come una carezza… E noi riposeremo…”

Cechov si spegnerà in Germania nel 1904 dopo aver chiesto di bere un calice di champagne.

 

“Il tabacco fa male”

Il monologo fu scritto nel febbraio del 1886. Il 14 di febbraio Cechov lo spedì alla redazione della “Gazzetta di Pietroburgo” dove il racconto fu pubblicato per la prima volta. Ma lo scrittore stesso non era contento della sua opera. Così scrisse al suo editore di non includerlo nella raccolta delle opere complete. Il testo è stato ulteriormente rielaborato nel 1898. Ma anche questa variante non lo soddisfò. E solamente una nuova ri-scrittura del 1903, un anno prima della morte, appagò lo scrittore.

Un critico letterario, Basargin scrisse che alcuni racconti di Cechov sono impregnati di una tale sensazione dolorosa che sembra di scorgervi le migliori pagine di Dostojevskij con i suoi “umiliati e offesi”. In effetti Cechov dedicò la sua vita alla descrizione degli umori della gente del suo tempo. In una sorta di diagnosi. Lo scrittore scopre tutte le parti nascoste dell’anima della sua patria: le sue malattie, la disperazione e l'apatia.

 

“ La morte di un impiegato”

Il racconto è stato stampato per la prima volta nel 1883 e aveva come titolo “Il caso”. Il fatto è che “il caso” traeva origine dalla vita reale. Alla base del racconto due storie realmente accadute. Una è un aneddoto risaputo: un critico teatrale, Zemcuznikov pestò di proposito il piede ad un impiegato di alto rango, dopo di che per un mese intero andò a trovarlo per le scuse, finché non fu buttato fuori brutalmente. La seconda storia era accaduta a Taganrog, la città natale di Cechov: nel gennaio del 1882 un piccolo impiegato si era suicidato dopo aver provato senza successo a domandare scusa al suo superiore per un piccolo errore commesso.

Cechov spesso chiamava i suoi brevi racconti “scherzi”. Ma si sa, in ogni scherzo c’è una parte di verità…

 

“La Gioia”

è uno dei primissimi racconti dello scrittore, una storia comica con una trama semplice e ingenua. Per la prima volta il racconto fu pubblicato nel 1883. Più tardi, a proposito di questo racconto Cechov diceva che lo scrittore deve imitare il chimico, si deve estraniare dalla soggettività quotidiana e non dimenticare che i mucchi di letame fanno parte del paesaggio a pieno titolo, e le passioni cattive fanno parte della vita in ugual modo di quelle buone…

 

“Scherzetto”

Questo racconto molto musicale, caldo e luminoso, fa scoprire un Cechov completamente diverso… All’epoca, nel 1886, Cechov collaborava contemporaneamente con due riviste – “Oskolki – Schegge” e “Svercjok” – Il Grillo. “La morte di un impiegato” che abbiamo già ascoltato è stata pubblicata nella prima di queste riviste. Il redattore della seconda accusò Cechov di insufficiente collaborazione; in una delle lettere questo redattore scrisse apertamente allo scrittore: “Sono completamente offeso con Lei – nella rivista “Schegge” Lei manda i suoi racconti migliori lasciando a me tutto ciò che non piace neanche e Lei stesso!”. Come risposta Cechov gli spedisce il suo nuovo racconto: “Scherzetto”.

 

“Una Calunnia”

Anche questo racconto vide la luce per la prima volta nella rivista “Schegge” nel 1883. Uno dei critici letterari di quel periodo scriveva: “Ecco un altro esempio di racconto dove l’autore narra le piccolezze della vita quotidiana, sciocchezze frutto di bigotteria fino al “ridicolo”; lo fa quasi sorridendo, e nel frattempo il lettore non riesce a staccare gli occhi dalla gente che geme, soffre e addirittura perisce nel mondo di queste piccolezze e stupidaggini”. Il racconto fu tradotto in molte lingue straniere quando Cechov era ancora in vita.

Alexandra Voitenko

Links:

"Stregati da Cechov", di Gabriele Gottardi (da "Centonove" del 24 aprile 2010)