Racconto di un sopravissuto al terremoto del 1908

di Sergej Stepanovic Tchakhotine

Biografia dell'Autore

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

 

Per gentile concessione di P.Tchakhotine.
Traduzione di G.Iannello, A.Voitenko.

 

© P. Tchakhotine
© Russianecho

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Note biografiche

Sergej Stepanovic Tchakhotine

 

Geniale e poliedrica figura, quella di Sergej Stepanovic Tchakhotine, in prima linea per 50 anni nella ricerca scientifica e nella politica, in Russia e all’estero. Studente da Roentgen, ha conosciuto da vicino Pavlov e Einstein, ma è stato anche un grande sociologo e uomo politico.

Tchakhotine nasce nel 1883 ad Istanbul, dove il padre ricopre l’incarico di dragoman (segretario di ambasciata) della Russia. Trascorre la sua infanzia a Costantinopoli e gli anni liceali a Odessa, sulle rive del Mar Nero. Si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Mosca, ma corre l’anno 1902 e la città è teatro di grandi agitazioni studentesche, preludio della prima rivoluzione del 1905. Coinvolto nei disordini, viene allontanato dalla capitale ed esiliato in Germania, dove studia anche nel laboratorio del professor Wilghelm Roentgen (lo scopritore dei raggi X) e di altri grandi scienziati tedeschi. Nel 1907 Sergej Stepanovic ottiene il dottorato summa con laude in Zoologia presso la prestigiosa Università di Heidelberg.

Sempre nel 1907, viene invitato dal suo amico e professore Alberico Benedicenti, direttore del Laboratorio di ricerca di biologia marina di Messina, in qualità di assistente. Siamo nel dicembre del 1908. Il terremoto lo sorprende nella notte con tutta la sua famiglia. Sopravvive, scavandosi con le mani un passaggio tra le macerie; anche la moglie e il figlio vengono estratti vivi. Ritorna in Russia nel 1912 su invito di Ivan Pavlov, portando avanti le sue ricerche sulla cellula vivente e lavorando come assistente del grande fisiologo russo in uno dei suoi laboratori a San Pietroburgo.

La Rivoluzione di Febbraio lo vede di nuovo protagonista: è uno dei responsabili del Comitato di aiuto tecnico-militare per il Governo Provvisorio. Inviso ai bolscevichi, ricoprirà per un breve periodo l'incarico di responsabile per la propaganda nel governo dei Bianchi sul Don.
Lo ritroviamo, dopo varie peregrinazioni (Zagabria, Parigi, Genova), a Berlino (1923-24), impegnato nella redazione della rivista Nakanune ("La vigilia"), ma anche come uno dei sei membri del movimento Smena Vek, che propugna il ritorno in patria degli intellettuali russi.

Continuerà quindi la sua attività scientifica in Italia, finché, avendo ricevuto una borsa di ricerca di un'istituzione americana, nel 1928 torna in Germania, ad Heidelberg, dove rimarrà fino all'avvento del nazismo nel 1933, divenendo in quei cinque anni uno dei leader del movimento antihitleriano Fronte di ferro. Dopo la presa del potere da parte del partito nazionalsocialista, ripara prima in Danimarca e poi, nel 1935, in Francia. Durante la guerra viene internato nel campo di concentramento di Compiegne, da cui uscirà nel 1942 grazie all'intervento in suo favore di un gruppo di scienziati tedeschi.

Nel 1944 fonda con degli amici e diventa il segretario generale prima del movimento S.A.L. (Science - Action - Liberation), poi del movimento COFORCES degli intellettuali contro l'eventualità di una terza guerra mondiale, che nel 1949 diverrà il Movimento per la Pace. Nel 1952 esce la seconda edizione ampliata del suo famoso libro Le viol des foules par la propagande politique (la prima uscì nel 1939 e fu distrutta dai tedeschi l'anno dopo). L'opera di Tchakhotine è la testimonianza diretta dell'avvento al potere del fascismo e del nazismo e l'analisi dello scienziato sui comportamenti e condizionamenti di massa sotto l'effetto della propaganda. In italiano il libro è uscito nel 1964 presso le edizioni Sugar di Milano con il titolo La propaganda politica.

Nel 1958 rientra in Russia, dove riprende i suoi lavori scientifici in vari Istituti di ricerca dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, prima a Leningrado e poi a Mosca. Ed è proprio a Mosca che si spegne, nel 1973, all'età di 90 anni.

 

 

***

 

 

SOTTO LE MACERIE DI MESSINA

di Sergej Stepanovic Tchakhotine

 

Capitolo I

Il destino e l'amore insaziabile per la ricerca scientifica mi hanno portato a Messina - un angolino lontano e meravigliosamente situato nell'estremo sud dell'Europa. Qui tutto è autentico e genuino e vi dice quanto siete lontano dalla modernità con la sua cultura dell'apparire, con le sue città affogate in nubi di fumo e di polvere, con le sue strade inondate dalla luce elettrica e i tram roboanti, con la folla affaccendata e frettolosa... No, qui non è così, qui tutto si è fermato; le palme orgogliose e silenziose si protendono verso il cielo blu scuro, sul cui sfondo si delineano con i loro aculei appuntiti i cactus...

Lentamente e posatamente camminano a due a due i tutori dell'ordine, i carabinieri, agghindati con le loro uniformi buffe e variopinte. Ecco passare un gregge di pecore con le loro campanelle tintinnanti: com'è strano vederle in mezzo alla città. Un apprendista sbadiglia pigramente davanti ad una delle innumerevoli botteghe di barbiere; in ogni quartiere inoltre, chissà perché, incontri pasticcerie e ... farmacie. Da qualche parte, vicino a una trattoria, stride un organetto a manovella ed una ragazzina mora canta con voce vivida e sonante i focosi e melodici canti del Sud che da queste parti tuttavia ti ricordano l'Oriente, il sangue dei saraceni e degli arabi. Tutto è inondato da una forte luce solare, su tutto si sente il suo caldo respiro.

Attraverso le arcate della Palazzata si vede il mare, più azzurro che mai; in lontananza le montagne lillà della Calabria e il minaccioso Aspromonte; nel porto si sente l'odore del catrame e l'agro aroma dei limoni: qui sul lungomare si protendono file di botti piene di limoni di particolare specie, conservati in acqua di mare presa direttamente con i secchi nel porto. Sono il prodotto principale delle esportazioni di Messina; sono mandati in Inghilterra e in America per la preparazione dei canditi, le bucce di limone zuccherate.

 

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Una veduta della zona portuale

 

Ecco, sono entrato nel porto ridente inondato dal sole, ho preso in affitto una barca e sono uscito in mezzo alle acque del porto. Il mare è come uno specchio. E anche se fuori, nello Stretto, tra Scilla e Cariddi, ribolliscono potenti correnti, minaccia per i pescatori, nel porto chiuso da tutti i lati, a parte una piccola entrata a nord, c'è la calma assoluta; l'acqua è pulita e trasparente, la barca scivola appena, io sono seduto, o più precisamente semisdraiato sulla prua, con la testa penzoloni sul mondo circostante senza fondo, ho nelle mani una boccia ed un retino per i pesci e sto attentamente guardando giù nell'acqua cristallina. Ecco, abbiamo preso una piccola corrente, e la nostra attenzione è subito attratta da forme di vita marine sorprendenti che vengono portate dalla corrente dentro il porto. Ci sono le meduse con i loro tentacoli bizzarri e curiosi, le sifonofore, trasparenti come il cristallo e le cosiddette farfalle marine, che battono le pinne come fossero ali, e ancora innumerevoli catene di piccole boccettine di salpe e altri veloci e trasparenti molluschi: insomma tutto quel mondo meraviglioso che ha fatto di Messina il paradiso dei biologi, la loro Mecca.

Ritornano in mente l'entusiasmo di Heckel, che così spesso e con successo venne qui a lavorare; ritornano in mente i lavori di capitale importanza, qui creati, dei fratelli Hetwing, di Ballfour e altri; hanno lavorato qui anche i nostri connazionali Mecnikov, Miklucho-Maklaj e tanti altri luminari della biologia.
Messina da sempre è stata una meta classica per i biologi, veniva considerata una tappa obbligata da visitare per qualsiasi ricercatore del campo; e solamente l'organizzazione di una stazione zoologica, riccamente equipaggiata a Napoli dal prof. Dorn, ha distratto gli scienziati dalla lontana Messina dove, sebbene la fauna sia più ricca, le condizioni di lavoro non sono altrettanto comode e la vita non è così piacevole come a Napoli.

La mia vita trascorreva pacificamente tra la scienza e la famiglia: vivevo a Messina con mia moglie e il bambino, Sergio, di due anni. Tutta la giornata stavo al laboratorio, inghiottito dal lavoro, tra esperimenti sempre nuovi e sempre nuove idee; di sera, tornato a casa stanco e contento, giocavo col bambino ed osservavo come si schiude la mente di un piccolo uomo; oppure stavo sdraiato sul balcone ad ammirare il meraviglioso tramonto e lo stupendo quadro che si apriva ai miei piedi. Abitavamo sopra la città, su una delle colline; attorno c'erano poche case e la vista dall'alto era bellissima: tutto lo Stretto, le montagne minacciose della Calabria, in lontananza Scilla e Faro, davanti a noi tutta la città come su un palmo della mano e alle nostre spalle, come in un anfiteatro, i nudi monti della Sicilia, qua e là ricoperti dai cactus.

 

 

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La "Palazzata" vista dalla zona falcata di S. Raineri

 

La giornata si spegneva lentamente, i colori lillà si addensavano e in essi si annegavano il mare e i monti; giù al porto e in città i lampioni sono stati accesi, si sta facendo fresco: è la fine di dicembre ormai, bisogna chiudere i balconi. Mi avvicino alla finestra dall'altra parte dell'appartamento: attraverso i rami degli ulivi, intrecciati in modo bizzarro, si vede brillare da quel lato dello Stretto una fila di luci: è Reggio Calabria.

Il giorno si è spento. Il bimbo dorme tranquillamente nella sua culla, nella camera di mia moglie. Con lei rimaniamo seduti ancora a lungo a chiacchierare. Ripercorriamo quello che è successo durante la giornata. Le notizie nei giornali sulle vibrazioni del terreno sono un po' esagerate. Oggi ho visto i dati dell'osservatorio locale; l'ampiezza e la frequenza delle oscillazioni sono un po' superiori alla norma, cosa del tutto normale in un posto classico per i terremoti come questo; qui la terra trema sempre un po', ovviamente senza che nessuno lo noti o ne sappia qualcosa, ad eccezione degli scienziati che operano alle apparecchiature sensibili della stazione. Anche adesso nessuno se ne preoccupa. Il nostro discorso quindi si volge alla nostra patria lontana, a conoscenti e amici, che ci hanno scritto negli ultimi giorni. Chissà se un giorno ritorneremo e li rivedremo, e quando?

Basta adesso, è ora di andare a dormire. Ci ritiriamo nelle nostre camere.

Oggi non riesco a dormire. Mi sento addosso una sorta di stato nervoso. Mi sveglio spesso e poi di nuovo affondo nel dormiveglia. Domani ci aspetta la prova generale di un apparecchio scientifico che è stato costruito dal meccanico dell'università su mio progetto e miei disegni. L'idea della realizzazione di questo strumento domina da tempo tutti miei pensieri. Più si avvicina il momento della sua realizzazione, più forte si fa l'impazienza che mi avvolge e febbrile il tremore. Anche adesso mi appaiano in sonno, infilandosi fastidiosamente nella mia coscienza, le vitine, i pulsantini , le molle e per la centesima volta immagino e quasi percepisco materialmente la complessa struttura del mio apparecchio, basta volerlo - ed esso comincia a funzionare, a vivere ispirato da me, una particella del mio "io"...

Sento vagamente il pianto di un bambino. Ah, è Sergio che piange. Esco dal dormiveglia e accendo un fiammifero: sono le due e mezza. Oh Dio, quanto ci vuole ancora fino al mattino.
Tic-tac, tic-tac, tic-tac - l'orologio sul tavolo sta ticchettando .... Con questo suono fastidioso la mia coscienza si spegne di nuovo... E da capo - le vitine, i pulsantini...
Mi sveglio di nuovo, accendo la candela - sono le cinque e dieci. Bevo della limonata. Che faccio ora? Non posso più dormire. Decido di rimanere a letto a pensare. Spengo la candela ...
... Tic-tac, tic-tac... Oggi mi sento meglio: l'attacco d'asma non si è più ripetuto, ma nel petto si sentono fischi e rantoli, rimanenze di una recente bronchite. Sarà sempre così? ... Tic-tac, tic-tac... A volte meglio, a volte peggio, ma è pur sempre una vita sotto condanna: vivere solo al sud. Sì, è vero che amo questo sud, che amo i suoi colori, il suo particolare profumo diffuso nell'aria, i raggi cocenti del sole e il mare, il suo meraviglioso, eterno, incredibile mare... Tic-tac, tic-tac... Ma la patria è la patria! Le sue pianure sconfinate, ma anche le montagne del Caucaso, il verde vivido dei suoi prati, ma anche il fragore del Mar Nero; e la sua giovane fiorente cultura, la musica raffinata, tutta letteralmente cosparsa di favolose perline e di preziose gemme del passato, l'inestinguibile sete di conoscenza che spinge decine di migliaia di giovani, spesso senza mezzi di sostentamento, semiaffamati ma con gli occhi ardenti, verso i nostri depositi del sapere, nelle aule universitarie, nelle biblioteche, nei laboratori ... Cosa ci riserva il futuro del nostro paese che ora si sta risvegliando? Possibile che io sia destinato a rimanere lontano da questo torrente? A non portare il proprio contributo alla causa comune?... Tic-tac, tic-tac.

..... Fra l'altro non ero forse anch'io là, non tanto tempo fa, a combattere, a bruciare di odio verso coloro che hanno tradito il mio popolo; chi non conosceva il popolo a tal punto da non capire che non è possibile porre un tetto sopra un albero che cresce, che non si può impedire la sua crescita, che è inutile combatterla? Anch'io ho sofferto per le mie convinzioni, ho pagato col carcere e l'esilio. Ah, quali ricordi di quei tempi! Mosca. Quel maggio. E tra il cielo primaverile, gli uccellini cinguettanti, le nuvole e me: le sbarre. Come vorrebbe liberarsi l'anima, come lentamen....

Oh, Dio, che cos'è?

Un boato... un cigolio... Tintinnio di vetri... Il mio letto...

Ah, è la morte, la fine!

Un istante e capii che era un terremoto. La fine? Di già? Un istante e saltai dal letto. Mi buttai verso la porta che dava nel corridoio. Attorno tutto tremava in una danza pazza e violenta, tutto trepidava di un terribile fremito. I pensieri correvano nella testa come fulmini... La moglie, Sergio... Il respiro si fermò...

Arrivare almeno alla porta, avere almeno il tempo di gridare, di riuscire a chiamarli. Allora tutto si fermerà, ne sono sicuro. Si fermerà questo spaventoso galoppo. Devo solo riuscirci. Sentivo che mi occorreva un enorme sforzo di volontà, tutto mi era venuto meno, un punto solo era rimasto nella coscienza: la porta, la porta.

Pareva che tra me e una volontà esterna, abnorme e terribile, ci fosse una sorta di furiosa competizione e questa sensazione riceveva forza reale dalla forte intensità e frequenza delle oscillazioni... Con tutta le fibre del mio essere sentivo lo sforzo della volontà. Tutta la mia vita si era concentrata in questo unico pensiero: arrivare alla porta.
Oh, potessi soltanto arrivarci! Quei momenti sembravano infiniti .... Barcollando, gettato da un lato all'altro, muovendo senza controllo al buio le mani, raggiunsi la porta ... Mi aggrappai alla maniglia. La scuoto - non si apre.

All'improvviso qualcosa si mosse, le gambe si muovevano come in un impasto, sentii che stavo sprofondando. Nella coscienza all'istante e chiaramente si stagliò un pensiero: "è adesso, la morte". Un fragore terribile ... un grido, un ululato e in mezzo al caos di suoni e terrore riconobbi inaspettatamente la mia propria voce, ma del tutto cambiata, era un grido selvaggio, alto e penetrante: "mamma, mamma!"

 

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***

 

Capitolo II

 

Un fatto sorprendente! Non pensavo ad altro, non riuscivo a pensare ad altro in quei terribili secondi se non a che dovevo raggiungere la porta e chiamare mia moglie; aprii la bocca per gridare il suo nome e però, nel momento della sciagura totale, realizzato istantaneamente che sarei morto, iniziai a gridare, senza averne coscienza, ciò che l’istinto mi suggeriva:[“mamma, mamma!”]

Trascorse un secondo e mi accorsi di essere rimasto schiacciato, ma ero vivo. Ciò più che rallegrarmi, mi sorprese. Muoversi era del tutto impossibile. Subentrò un terribile silenzio, le oscillazioni ebbero fine. Di nuovo sentii la mia propria voce, stavolta non alta e penetrante, ma debole e calante: “ecco, la mia vita è andata”. Cominciai a soffocare … . Una polvere terribile e sottile riempiva ogni cosa, sentivo come essa si posava sugli occhi, come mi riempiva la bocca, il naso e penetrava nei polmoni. Cominciai a tossire insistentemente e a sputare. Nella bocca qualcosa di caldo e denso … Sangue, - mi balenò nella mente, - ciò significa che ho preso un forte colpo da qualche parte, nel petto o nella schiena, che ha danneggiato i polmoni. Non sentivo dolori … .

Il sentimento istintivamente gioioso di non essere morto si trasformò nella coscienza rassegnata che sarei morto lo stesso, qui e presto. La tosse, l’accesso di asma che si rinforzava, presi tutto ciò per l’inizio della fine. Soffocando, cominciai a gridare: “Emma, Emma, Sergio …”. Non lontano da me, qualche debole, sordo gemito … .

Nella disperazione, soffocando convulsamente, provai a liberarmi dai terribili abbracci di pietra, tesi tutti i muscoli e sfinito, non essendo in grado di muovermi, mi abbandonai di nuovo alla mercé del terribile mostro, della forza di pietra della natura che mi abbracciava da tutti i lati … Essa si prendeva gioco di me, ridendo talvolta selvaggiamente e poi di nuovo fremendo tutta di una pazza e maledetta risata … . Le scosse si ripetevano … .

Le crisi di tosse si rinnovarono per alcune volte. Tuttavia presto noto che nell’intervallo tra i parossismi comincio a calmarmi, un piacevole senso di stanchezza mi avvolge, sento che il senso di soffocamento passa, respirare diventa più facile, mi tranquillizzo … . Di nuovo comincia a nascere da qualche parte nel profondo di me un punto, che si fa sempre più vicino e più grande. Lo seguo con attenzione … Trascorrono ancora dei minuti - ora sono completamente calmo. Comincio a pensare alla situazione in cui mi trovo. Soltanto adesso mi accorgo che attorno a me è l’oscurità completa, buio pesto. Cosa che di nuovo mi butta giù.

Noto che il braccio sinistro è libero, posso muoverlo; la testa anche … qualcosa di caldo e appiccicoso sui capelli: sicuramente del sangue. Con sorpresa mi accorgo che ho la testa coperta con qualcosa di morbido. Ah, sì, è la mia pelliccia. Mi sovviene che ieri, a letto, me l’ero messa sopra le gambe, visto che la notte si era fatta fresca….

Ma al momento della catastrofe ero lontano dal letto. Che piacevole sorpresa … .

Di nuovo si ammassano le nuvole, mi ricordo dei miei. Mi metto in ascolto … un silenzio assordante. All’improvviso comincio a gridare con tutte le mie forze: “Emma, Emma, Sergio!”

In quel grido c’era tutto: l’implorazione, la disperazione, lo struggente desiderio di sentire le loro voci a me care, e la paura, la paura di sentirli feriti, gementi, invocanti aiuto. Dio, se li sento, non reggerò, uscirò pazzo. Silenzio terrificante. All’improvviso dei gemiti, qualcuno ha cominciato a cantare della preghiere, non è né un pianto, né una canzone, di nuovo un gemito, porgo l’orecchio: non, non sono loro, qualcun altro. Di nuovo profondo silenzio. Tutto tace. Come morto. Ascolto, ascolto, di nuovo chiamo, di nuovo ascolto: niente. Finito. Dietro di me, molto vicino, qualcuno comincia a gemere a fatica, sommessamente, terribilmente; evidentemente una bambina caduta dal piano superiore. Il gemito si trasforma in un rantolo, di nuovo il gemito. Di nuovo silenzio. Orribile.

 

 

La Cattedrale di Messina prima del 28 dicembre 1908.

I ruderi della Cattedrale dopo il terremoto.

 

Significa che sono morti, non ci sono più … Com’è possibile? Soltanto poco fa c’erano, e io c’ero, erano a letto che dormivano tranquilli, e anch’io ero a letto, - eppure io ancora esisto, penso, vivo - mentre loro perché non ci sono più?

Ah sì, sono morti, sono morti, morti. Soltanto adesso comincio ad accettare questa parola in tutto il suo terribile e autentico significato. Quindi tutta la vita la conoscevo, l’ho ripetuta, senza comprenderla. Come sono morti? Sicuramente entrambi sul colpo… Altrimenti sentirei le loro voci, i loro gemiti: qui vicino, molto vicino … .

Essi giacciono lì, ecco lì … La testa si gira verso il lato dove io penso debbano essere, ma attorno è il buio completo … Tasto questo buio con il braccio sinistro libero, lo porto in avanti: ecco c’è qualcosa di duro, appuntito: pietre. Tasto me stesso: mi rendo conto che sono rimasto sepolto in posizione seduta, le gambe sono allungate in avanti, il petto è libero fino alla cinta; più giù qualcosa: della sabbia, mattoni, piccole pietre, le gambe significa sono sepolte dalle anche alle ginocchia, e sotto le ginocchia qualcosa di strano: sono proprio come se fossi in una trappola; avendoci fatto attenzione, comincio a sentire nelle gambe una forte pressione e capisco che sono schiacciate e non potrò tirarmi fuori da qui. La spalla e il braccio destro sono come non ci fossero: disperse da qualche parte, in un ammasso di pietre, come radicate nel muro … .

La situazione è senza via d’uscita, ne sono pienamente consapevole, ma allo stesso tempo noto che ciò non mi produce nessuna impressione, è semplicemente una fredda conclusione scientifica. A momenti sembra che la vita e la morte mi siano indifferenti, mi guardo dentro e noto che l’idea della morte realmente imminente è chiarissima, ma non c’è nessuna voglia di salvarsi. La mente, come posta di fianco, ad osservare dal di fuori questo paradosso, mi sorprende. E, sorprendendomi, di nuovo noto che viene a galla un confuso sentimento di rimpianto, di stizza per il fatto che sarà impossibile comunicare questa interessante esperienza “lassù”, di sopra, nella vita che andrà avanti senza di me, che sarà impossibile trasmetterla ai giornali scientifici. Altre volte di nuovo questo stato lascia il posto a barlumi di istinto di auto-conservazione: incomincia a sembrarmi che tutto ciò è “tanto per”, che non è reale, soltanto un sonno pesante e agitato, ecco farò uno sforzo e tutto svanirà, mi sveglierò e tutto sarà come prima: i rami di ulivo dorati dal sole mattutino che faranno capolino nella finestra, Sergio che farà irruzione nella mia stanza con una sonora risata, spalancherà la porta del balcone e comincerà a parlare buffamente col tacchino nel cortile; e io a letto a stiracchiarmi dolcemente – ah sto proprio bene, bene. Questo quadro è così vivo, la tensione suscitata dal suo desiderio così dolorosa, da sentire le lacrime invadermi gli occhi e accortomi di esse, ritorno alla realtà: mi afferra la consapevolezza dell’irreparabile, dell’essere senza via d’uscita, essa mi preme, mi schiaccia e di nuovo rimango steso senza volontà, senza desiderio, senza speranza.

Di nuovo è soltanto la mente a funzionare. I pensieri scorrono, prendono il posto l’uno dell’altro, si ammucchiano, strani, inutili pensieri: come se nel cervello qualcosa fosse scoppiato e stesse uscendo fuori ed io da qualche parte, dal di fuori seguo questi flussi e mi meraviglio. Scorrono lentamente, densi … .

Alcuni giorni prima della catastrofe avevamo comprato per lo spasso del bimbo un gallo; ne fu felice, nella sua piccolissima coscienza esso occupò un posto enorme: la giornata iniziava e finiva col gallo, in tutti gli avvenimenti risuonava una nota sul gallo. Ed ecco che adesso, inopportunamente, mi saltava in testa quel gallo. Per qualche ragione mi sforzavo di immaginare realmente le sofferenze del gallo nel momento della catastrofe, mi disegnai il suo sconcerto nello stanzino, durante la scossa e l’oscillare della casa, e soprattutto mi intrigava, chissà perché, la traiettoria del suo svolazzo al momento del crollo della casa. Che ne è stato di lui? E’ rimasto soffocato dalle pietre e come giace, cosa prova o ha potuto scivolar via e involarsi. Ah, le ali, le ali! …

Ecco un altro pensiero, una frase che si insinua con insistenza, la ripeto decine di volte: “tremano come febbricitanti le foglie degli ulivi” … Accanto alla nostra casa c’è un oliveto, i tronchi penosamente curvi degli ulivi per qualche motivo richiamano per associazione l’immagine di sofferenze fisiche, di torsi contorti dal dolore … “Tremano come febbricitanti le foglie degli ulivi”: … durante l’oscillazione del terreno tutte le loro argentee foglie dovrebbero frusciare, dovrebbero gelidamente tintinnare – “tremano come febbricitanti le foglie degli ulivi” … .

La scorsa estate siamo stati nella Germania meridionale, in una zona boscosa: lì mia moglie ha preparato molte marmellate di frutti di bosco e qui a Messina queste conserve occupavano alcuni ripiani della dispensa. Un pensiero inatteso: che aspetto avrà adesso questa marmellata? Sicuramente tutto si sarà mischiato con la calce, si sarà sparso, che tipo di reazioni chimiche saranno in corso ora in quella massa? Ecco che vi penetrano batteri, funghi diversi, ci saranno processi di fermentazione … Puh, che stupidaggini! Da dove mi vengono? …

Ecco, stavo leggendo un libro, un grosso buon trattato in lingua italiana di elettricità. Da tempo me l’ero messo in programma di leggerlo, ma la lettura regolare di letteratura specifica e di biologia mi avevano sempre fatto accantonare la mia intenzione. Alla fine ci ero riuscito e con piacere ne “ingoiavo” le pagine: mi rimanevano circa cento pagine, e contavo di finirle fra oggi e domani. Forse davvero non è destino che lo completi, mai, mai? Questo non può essere. Forse proprio questo non mi riuscirà mai di fare? Si fa luce la stizza, la consapevolezza dell’irreparabile cresce, si allarga, si estende ad altre varianti, ad altri pensieri, desideri, ne deriva un’onda di terrore: no, no, non voglio, non posso, non lo voglio, non può essere che tutto questo sia già accaduto. No, no, come tornare indietro, come evitarlo? Forse che non si può, che è impossibile, irreparabile, per sempre, per sempre? Sì, sì, irre-pa-ra-bi-le!... .

 

La Palazzata, il prospetto cittadino sulla zona falcata del porto, distrutta dal sisma.

 

 

Di nuovo tutto è come si placasse, si rannicchiasse, non ho voglia di niente, striscia dentro profondamente da qualche parte il freddo. Tutto di nuovo si è bloccato, è diventato indifferente. Di nuovo si accumulano pensieri freddi, assurdi, estranei, non corrispondenti al momento.

Alle volte d’improvviso si delinea chiaro e vivido, ammantato dal dolore, il pensiero dei miei cari: della moglie e del bambino, ma anche di me stesso, di dettagli più profondi della mia vita passata, di come ho vissuto, cosa speravo; è allora che sento che questi pensieri sono pericolosi, sento quasi istintivamente che andando a fondo in ognuno di questi pensieri, uscirò matto, come se attraverso delle fessure mi apparissero per un istante tali ineffabili orrori, tali paurosi vortici di fuoco, da far chiudere automaticamente le fessure, ed io con inconcepibile facilità e con uno sforzo di volontà pensato, realmente provato, getto via, scaccio questi pensieri.

Ma, cacciando tale pensiero, mi sento come messo alla porta, un tormentoso residuo mi rode l’anima. Allora mi consolo convincendomi che non è niente, che è ancora per poco, che tutto dovrà finire. Tutto, anche la cosa più terribile, tutto ha fine: la testa mi dice che in simili condizioni la coscienza non può conservarsi a lungo e lì, non più lontano, c’è il traguardo eterno.

Nella mia infanzia, non di rado, nella calura, in uno stato di delirio, avevo una strana sensazione: come se tutto il corpo fosse avvolto ermeticamente da grossi anelli, una sorta di funi di pietra: esse mi comprimevano, ma allo stesso tempo nel provare dolore sentivo stranamente il loro legame indissolubile con me stesso, come se fossero parte del mio corpo – spaventoso, pesante, ma anche curioso: mi sforzavo di afferrarne il senso, di capire, come era possibile? Ed ecco che di nuovo, adesso, questo sentimento mi invade a ondate, la testa si offusca, come se perdessi coscienza… Era stato un presentimento quello che avevo vissuto nell’infanzia?

Di tanto in tanto da sottoterra si ripetono delle scosse, ma comunque più brevi e deboli della prima; tutto di nuovo intorno trema, si ode il fruscio della sabbia che cade e a volte un fragore, un fracasso sordo: sono i resti traballanti che franano. Durante queste nuove scosse istintivamente mi rannicchio e socchiudo gli occhi, aspettando di rimanere schiacciato.

Gradualmente riesco a distinguere intorno a me i contorni delle cose e ne ricavo due conclusioni: che non ho perso la vista e che la notte è trascorsa. Da qualche parte in alto, di lato, penetra fino a me una luce molto fioca. Avendo notato la luce, ricordo di aver sentito nel profondo, dentro di me, un leggero palpito, come ammantato da un sentimento religioso: da bambino ero stato molto religioso, ma poi naturalmente, non soltanto tutti i ricordi della religione erano andati persi, ma facevo bella mostra della mia miscredenza.

Cercando di orientarmi nella semioscurità, scopro del nuovo vicino a me, un’enorme trave di ferro, quindici o venti centimetri sopra la testa, un po’ spostata in avanti; e più in basso, davanti a me, in posizione inclinata, trovo a tastoni il mio comodino che stava tra la porta e il letto; esso con la parte superiore puntellava ora la trave e con la parte inferiore si perdeva in un cumulo di sabbia e pietre che ricoprivano le mie gambe. Ciò significa quindi che sono in una specie di fossa, alla sommità della quale è appoggiata la trave di ferro che mi ha salvato la vita, trattenendo da sola i detriti e la parete che è franata e che avrebbe potuto schiacciarmi. Questa massa ha spinto il comodino contro la trave. Mi sovviene che la nostra casa, avendo subito dei danni a causa di uno dei relativamente frequenti terremoti che avvengono a Messina, era stata consolidata una seconda volta con un’enorme trave di ferro. Quindi è stata proprio questa a salvarmi.

Con il braccio sinistro libero frugo e mi accorgo che lo sportello del comodino è rotto e si può ficcarci la mano. Ne tiro fuori un ripiano di legno che viene via facilmente. Lo esamino nella semioscurità e improvvisamente mi viene uno strano pensiero. Ma io posso usare questa mensola per dare l’ultimo segno di me lassù, ai miei cari che sicuramente verranno e mi cercheranno e troveranno il mio cadavere. Gli potrò dire che non sono morto sul colpo, che sono rimasto vivo, che in questa fossa ho pensato, posso mandare i miei ultimi saluti, addii. A questo scopo mi servono un chiodo o un bastoncino, e il mio sangue farà da inchiostro – occorrerà soltanto graffiare un po’ più a fondo il braccio.

Mi accorgo che questa idea in stile M … mi suscita un sorriso involontario. Ma un’idea ancora più fantastica viene a galla: sento che la gamba sinistra è schiacciata senza speranza e che liberarla è fuori discussione. Ed ecco cosa mi viene in mente all’improvviso: se provassi a tagliare la gamba, scavando sotto di essa per un po’ dello spazio vuoto in modo che tutto il peso che le grava addosso le crolli addosso dall’altro e la spezzi; e poi tirar fuori il moncone e strisciar via. Ma il sangue che scorrerà dalle vene spezzate? E il dolore che mi farà perdere conoscenza? E poi come fare a spezzare i muscoli? Si delinea tutta l’assurdità e la fantasia di un simile piano.

 

I soccorritori al cospetto della città in macerie.

 

Oh! Delle voci! Da qualche parte lassù, in lontananza, attutite. Qualcosa in me trasalì, si scosse e si mise in guardia. Sento dentro crescere un punto dal quale partono in tutte le direzioni dei fili e i muscoli che iniziano a tendersi in tutto il corpo. Avidamente porgo l’orecchio, cerco di capire la direzione delle voci; ecco sono sempre più vicine e chiare, si sentono i passi, si arrampicano per le macerie. Sì, c’è gente lassù, libera, che forse cerca i suoi, pure rimasti sepolti. Prendendo alla sprovvista anche me stesso gridai, non ricordo la prima parola, ma continuai ancora e ancora. I passi si interruppero, le voci cessarono; sicuramente si sono messi in ascolto. Ciò mi ridiede le forze e di nuovo cominciai a gridare con tutte le forze che avevo: “Aiuto!”. Questa volta sentirono perché risposero: “Aiuto!” … E lassù da qualche parte, non distante si sente un darsi da fare, un arrampicarsi, un fruscio di sabbia che cade. Il cuore cominciò a battermi forte. Che, sarò salvato? Mi montò il sangue alla testa. Cominciai a gridare ancora più forte:

- Qui, qui, venite gente, per l’amor di Dio, tiratemi fuori da qui.

- Sì, ma dove sei, chi sei?

- Sono uno studioso russo, sono rimasto sepolto qui e non posso muovermi. Non andate via, tiratemi fuori.

- E tu prova in qualche modo a trascinarti verso di noi, noi ti afferriamo e ti tiriamo fuori, - dalle voci capisco che sono semplici contadini.

- Sì ma io non posso muovermi, ho le gambe schiacciate, sono immobilizzato.

- E che possiamo fare, non abbiamo niente, né piccozze, né vanghe, né pale. Qui è tutto pericolante, in qualsiasi momento può succedere che caschiamo giù

Colgo nella loro voce una nota di esitazione, di sfiducia, e mi investe un’ondata di sudore freddo: che succederà, se vanno via?


 

 

***

 

 

Capitolo III

- Dio, vi prego non ve ne andate, trovate qualcosa, provate, non mi lasciate.

- Che cosa dobbiamo trovare, che attorno non c’è niente, tutto è andato distrutto, tutto, hanno tutti perso la testa. La città non c’è più, son tutti morti, anche noi vaghiamo affamati, non sappiamo cosa mangeremo. Di aiuto non c’è da aspettarsene da nessuna parte.

- Ma per l’amor del cielo, vi scongiuro, non mi lasciate, non mi lasciate, aiutatemi, provate, scavate sopra di me, forse inizierò a vedere qualcosa in più, fatemi arrivare qualcosa, una lama qualsiasi e un sacco attaccato ad una cordicella, scaverò io; la cosa principale è che non ho dove mettere la sabbia e le pietre che mi circondano, io riempirò il sacco e voi lo tirerete su e mi aiuterete.

 

La chiesa di S. Francesco distrutta, in piedi resta solo l'abside medioevale.

 

Sento che hanno cominciato a parlare fra loro a mezza voce. Si consigliano. Su cosa? Se il gioco vale la candela? Attimi di trepidante attesa. Noto che dentro di me, da qualche parte nasce una preghiera. Ecco, sento di nuovo un fruscio, fanno qualcosa, spostano qualcosa, sembra che scavino o sollevino qualcosa. Sulla testa mi piove insistentemente della sabbia sottile. E che succederà se per i loro sforzi, le masse instabili dei detriti crollassero e mi seppellissero con loro, ma questa volta una volta per sempre?

 

- State attenti, più attenti, qui mi piove addosso!

 

Ogni loro azione mi riaccende la speranza, la salvezza sembra lì, eccola, sempre più vicina e vicina. Ora tutto passa in secondo piano, niente più pensieri, considerazioni, piani; una cosa, una cosa soltanto mi possiede, tutti i pensieri e tutto il corpo protendono verso un solo desiderio: al più presto via da qui, lassù, all’aria aperta, verso la vita, libero.

 

Di tanto in tanto parlo con loro, tento di instaurare tra me e loro dei momenti di intimità, di condivisione, li incoraggio, dico che mi è più facile respirare, che si vede meglio, nonostante niente di tutto ciò sia vero e la sabbia continui a piovermi addosso sempre di più.

Dal rumore mi accorgo che i loro movimenti divengono sempre più fiacchi, insicuri, sempre più spesso si fermano, riposano, parlano di qualcosa. E a me il cuore mi si blocca.

 

All’improvviso qualcosa sopra la testa cominciò a muoversi, la sabbia comincia a cadere fitta, come da un sacco, si solleva la polvere, comincio ad ansimare. Ma dopo qualche istante, mi accorgo che nella fossa si è fatto più chiaro e sopra sembra ci sia più spazio. E’ successo che da sopra sono riusciti in qualche modo ad afferrare e tirar fuori la mia pelliccia, che giaceva con un’estremità sopra la mia testa e con l’altra usciva da qualche parte, lassù. Ciò infonde a me e a loro più energia e speranza di successo.

 

Il lavoro cominciò di nuovo a ribollire. E cominciai a dipingermi il futuro.

 

Ecco mi tireranno fuori, mi porteranno premurosi giù in città; lì certamente ci sono già i soccorsi sanitari, delle baracche apposite. E forse anche degli ospedali che sono rimasti intatti – a Messina ci sono degli edifici così antichi e massicci, - mi circonderanno di cure, mi laveranno, mi benderanno e mi metteranno a letto … . Il lavoro dei miei salvatori per qualche ragione tuttavia non va avanti. Sento che qualcuno si allontana. Di nuovo il cuore mi si blocca. Interpello quello rimasto, che svogliatamente scava ancora. Mi risponde malvolentieri. Percepisco che qualcosa non và. Provo a non troncare il discorso, come a legarmi con le parole all’uomo che si muove lassù – mia unica ancora di salvezza. Ecco di nuovo torna l’altro, sento che parla, che non ha trovato quello che era andato a cercare. Il tono della loro voce si fa d’improvviso deciso. Il cuore mi viene meno. Sento e non credo, non voglio credere. «Allora – dicono – addio, non possiamo fare niente per te, abbiamo provato di tutto, non abbiamo trovato nessun attrezzo, non ci riesce niente, di aiuto non c’è da aspettarsene da nessuna parte. Sopra di te è tutto così ammassato che qui non basterebbero tre giorni per liberarti; che fare, pover uomo, ti salutiamo, rendi la tua anima a Dio».

 

Allibii. Il fatto di rimanere di nuovo solo, abbandonato e tagliato fuori dal mondo, dalla vita, adesso che mi sembrava di stare ormai con un piede lì fuori, adesso che nuovamente speravo e nuovamente mi animavo, mi parve così mostruoso, terribile, impossibile, che niente era paragonabile a questa consapevolezza che come un fulmine mi squarciava.

 

Trasporto dei feriti.

 

 

Con voce tremante cominciai a gridare, a chiamarli, a supplicarli, ad implorare di non andar via, di non abbandonarmi. Chi capiterà qui di nuovo, in questo luogo sperduto. Quando tutto è andato distrutto, quando non ci sono soccorsi, quando quei pochi che sono sopravvissuti - come dicevano loro- hanno perso la testa e si dimenano laggiù in città tra le macerie. Anche se quei due ci ripensano, se proveranno improvvisa vergogna e torneranno, sarà difficile che in un mare di macerie e detriti possano ritrovarmi, io a quell’ora forse sarò svenuto e non li sentirò. No, no, purché non vadano via, imploro, grido, li chiamo. Inutilmente, i passi si allontanano, spietati, di fretta, come se corressero per non sentire più le mie implorazioni e invocazioni.

 

Ecco cos’è la gente! La sensazione di orrore lascia il posto al rancore, all’odio, alla rabbia, comincio a urlargli, a maledirli, soffoco per la valanga di impotenti minacce e maledizioni che mi scuotono. Il mio odio si estende a tutti, maledico tutto il genere umano, non trovo le parole per condannarlo, per infangarlo. Tutto il mio corpo freme di rabbia, di dissennati tentativi di liberarsi dagli abbracci mortali che mi avvinghiano.

 

Ma, miracolo! In preda a queste convulsioni mi accorgo che la parte superiore del tronco, forzatamente rivolta a destra, si sposta leggermente in avanti e sento che il braccio destro, fino a quel momento immobilizzato, ora si muove un poco . Dopo averlo notato, tutta la mia scoordinata energia dei momenti convulsi sembra all’improvviso incanalarsi in una direzione ben precisa; tutta la mia attenzione e i miei sforzi cominciano ad indirizzarsi verso un solo obiettivo: liberare quel braccio. Lavoro febbrilmente col braccio sinistro libero, scavando la sabbia e le pietre che circondano la parte destra del petto e del tronco, con tutte le forze tento di liberare il braccio bloccato. Ora noto che nella mano destra, tra il pollice e l’indice, ho qualcosa di non grande, di forma sferica, morbido, un oggetto simile ad una pallina consistente, mi “rompo” la testa e al desiderio di liberare al più presto il braccio si unisce la curiosità di sapere subito di che si tratta.

 

Ciò nondimeno il lavoro procede stentatamente. Da un lato il braccio sinistro, come mi accorgo adesso, è piuttosto ferito, la pelle in molti punti è saltata, il sangue si è raggrumato ed è tutto cosparso e ricoperto di calce. Il pollice durante il lavoro tende sempre ad uscire dalla giuntura, all’indietro e per fargli riacquistare la posizione normale lo comprimo contro la trave di ferro sospesa sopra la mia testa, e in questo modo lo riassesto. D’altro lato non c’è dove mettere la sabbia e le pietre scavate, mi tocca ricoprirci la parte sinistra del corpo, disturbando così di nuovo il lavoro del braccio operante. Gradualmente mi ingegno a ficcare le pietre in diverse fessure e buche davanti e di lato, la sabbia la verso nel comodino o dietro la testa e le spalle. Gradualmente a destra c’è sempre più spazio libero. Ancora qualche sforzo, uno-due ed ecco il tronco è libero, soltanto il braccio ancora è trattenuto da qualcosa. Faccio una forte virata con la spalla, sento un dolore acuto, ma il braccio è riuscito a tirarsi fuori. Fra le dita c’è l’oggetto misterioso. Stupore. Capitata non si sa da dove e come, nella mia mano appare una piccola patata.

Liberate entrambe le braccia, con nuovo fervore mi rimetto al lavoro; non ci sono più pensieri, sentimenti, sono preso da una sola cosa: lavorare, lavorare senza sosta, alla svelta, per liberarmi. Adesso so che ciò è possibile. Con entrambe le mani scavo attorno le gambe, le pietre vanno nelle fessure, la sabbia dietro la schiena e sui lati. Raggiungere le gambe per adesso non rappresenta una particolare difficoltà. Presto sarò in grado di orientarmi sulla posizione delle gambe. Quella destra riesco a muoverla a malapena, ma quella sinistra è senza speranza. E’ completamente schiacciata, è tutta gelata e insensibile. Mi rendo conto di conseguenza che la circolazione del sangue si è interrotta o in ogni caso è fortemente ostacolata. E ciò significa pericolo di cancrena. Forse è destino che dopo tutto debba rimanere qui ad osservare, ora dopo ora, la necrosi diffondersi dalla gamba in su, strisciare sempre più in alto, sentire, ancora vivo e cosciente, comparire l’odore acre del corpo che da vivo già si decompone, vedere comparire le macchie cadaveriche … Dio, che orrore! Mi do di nuovo convulsamente al lavoro. Della gamba sinistra non c’è niente neanche da pensare, tutta l’attenzione è rivolta a quella destra. Il lavoro prosegue febbrilmente, mi accorgo che tutto attorno la mia fossa assume gradualmente un aspetto sempre più organizzato, l’aspetto di una costruzione più o meno regolare; le braccia lavorano veloci, abili, precise. Com’è possibile? Noto che non faccio nessun movimento superfluo e sbagliato, non c’è incertezza, un’eccezionale sicurezza e metodicità domina le mie azioni. Sembra che qualcuno mi guidi.

 

Alla fine, con un altro sforzo tiro fuori la gamba destra, fa male, mi duole, ma non fa niente, posso piegarla. Velocemente la friziono, la massaggio, la pulisco dalla calce.

 

Avanti, avanti rimane solo la gamba sinistra da disseppellire, e allora sarò libero! Se non l’avessi, avrei potuto girarmi nella fossa. Ma qui è come in una trappola. E inizia l’ultima, disperata battaglia per la vita. Quanto andrà avanti non lo so. Adesso alle volte, quando ci ripenso, mi sembra che per liberare questa gamba se ne sia andato via più della metà del tempo che sono rimasto sotto le macerie (in tutto, come calcolai dopo, vi rimasi sepolto per circa dodici ore). Quante volte sfinito, completamente disperato abbasso le braccia, spossato cado nella sabbia che mi circonda, quante volte mi riprendo, di nuovo scavo, rimuovo i detriti, tento di tirar fuori la gamba. Ma essa non si muove di un millimetro. Giace come un pezzo di legno, la gamba terribile e bluastra, morta, nauseante, a me adesso estranea e odiosa, e non mi lascia andare. Non è una parte di me, non la voglio … Dio, come strapparla, come liberarsene?!

 

 

Al colmo della disperazione noto che le labbra borbottano vecchie preghiere, che gli occhi involontariamente si rivolgono insù, che in tutti i muscoli del corpo, quando il fiato è sospeso, emerge una tensione verso l’alto, dopo di che provo ogni volta un rinnovato vigore che mi alleggerisce e mi spinge a riprendere di nuovo il lavoro. Io prego! Ma non provo né vergogna né imbarazzo. Tutto succede in modo così semplice, naturale. Dopo sto meglio, tutto qua. Ma talvolta nondimeno ci penso su. Dal momento in cui vedo, sento che i miei sforzi per liberarmi non sono vani, che c’è una speranza , la ragione allora riacquista i suoi diritti: rifletto e comincio a capire che la vecchia abitudine alla preghiera acquisita nell’infanzia, nascosta nei meandri del mio sistema nervoso, è risorta, risvegliata dall’innato senso della paura e agisce automaticamente secondo il principio di Pavlov del riflesso condizionato, suscitando dentro di me uno stato psicologico di euforia. Questo ragionamento mi tranquillizza.

 

Adesso mi è chiara la posizione della gamba. Il comodino, schiacciato posteriormente dalla parete inclinata e trattenuto allo stesso tempo nel cadere ancora dalla trave di ferro, è penetrato con la sua affilata estremità inferiore nella carne della gamba e il taglio ha raggiunto l’osso. Tutto attorno al taglio è gonfiato e si è necrotizzato. Dato che questa estremità del comodino giace quasi longitudinalmente all’osso, quest’ultimo ha retto il peso e non si è rotto, ma tirar fuori la gamba da questa posizione è probabilmente impossibile.

 

Ad un tratto con orrore mi accorgo che la trave di ferro, la quale mi ha salvato, si è incurvata leggermente nello spazio vuoto sopra di me. Significa che qualcosa dall’alto esercita una pressione terribile. E’ come la spada di Damocle! Dio, ed io non riesco a spostarmi né avanti né indietro. In ogni momento essa può crollare, spezzarsi e in un attimo sarò schiacciato. La sfioro, la tasto e mi sembra di percepire all’interno di essa quella terribile tensione. Socchiudo gli occhi, prego e lavoro. E così appresso, e così sempre di nuovo … . Mentre la trave lentamente si piega, si incurva, non ci sono più dubbi … . Prego e lavoro, prego e lavoro … .

 

Dopo lunghi e interminabili sforzi alla fine mi riesce di scavare con attenzione sotto gli angoli dell’estremità inferiore del comodino uno spazio per metterci dei mattoni. Li consolido attorno ancora con dei puntelli. Mi rimetto a scavare sotto la gamba, a lungo, molto a lungo, tiro fuori granello dopo granello. Mi prende a momenti un dolore acuto, insopportabile. Sento che presto gli sforzi avranno fine, mi agito, mi affretto, ansimo. Con timore tengo d’occhio la trave. Adesso è proprio come la lancetta del pendolo nel racconto dell’orrore di Edgar Poe. Sempre più vicina, sempre più incurvata. Chi di noi due farà prima? Io o lei?

 

In uno stato di terribile agitazione, tutto tremando, strattono convulsamente la mia gamba maledetta, la stringo con entrambe le mani, la tiro. Oh! Ancora uno sforzo sovrumano, ancora, ancora: si muove, si muove. Con una sollecitazione grandissima la tiro fuori dal di sotto del comodino, mi contorco tutto nello sforzo di voltarmi, mi giro, mi rannicchio e inizio a strisciare a quattro zampe indietro verso su, prima possibile lontano dalla trave. Qualcosa mi graffia e mi lacera, mi strappa i resti della camicia tutta buchi, ma non noto quasi niente, sento che questo è l’ultimo sforzo, che bisogna raccogliere tutte le energie, ancora un po’ ed esse mi abbandoneranno. No, qualsiasi cosa, ma non indietro in quella fossa, sotto la mia spada di Damocle! Striscio, mi stringo, mi appiglio, mi trascino su, c’è sempre più aria, attorno è un caos di detriti, tavole con chiodi sporgenti, paglia, incavallature, tegole rotte, spaccate, lamiere di ferro arrugginite, tutto messo sotto sopra come dopo il passaggio di un vortice selvaggio.

 

Ecco, ecco ormai ci sono vicino … vicino … ce l’ho fatta ad uscire … sono sul tetto.

 

Messina prima del terremoto: la rada di San Francesco di Paola, 1903.

 

 

***

 


 

Capitolo IV

Fui investito da una corrente di aria fresca e subito arrivò un’ondata di debolezza, mi rannicchiai tutto, mi feci piccolo, da un lato provavo una sensazione di liberazione, di avercela fatta, dall’altro una di sfinimento, di prostrazione, di disorientamento. Il quadro che si presentò ai miei occhi mi carpì e mi schiacciò. Sentii di essere sul punto di perdere conoscenza. Mi balenò il pensiero di poter di nuovo sprofondare in quel buco nero spalancato dal quale ero strisciato via. Convulsamente, come di persona che annega, mi aggrappai ad una trave che sporgeva lateralmente e in quella posizione mi bloccai. Quanto tempo trascorsi in questo stato di torpore non lo so. Ricordo che mi sforzavo di comprendere e non c’era modo di riuscirci: avevo la sensazione di aver trascorso sotto le macerie non più di tre-quattro ore e un qualche meccanismo al mio interno si era evidentemente predisposto alla luce del giorno, invece si stava facendo buio, e questa non corrispondenza tra l’aspettativa e la percezione diretta della realtà mi faceva venire le vertigini. Ma con uno sforzo della volontà, unito ad una piccola tensione dei muscoli, sentii come uno spostamento, lì in qualche posto nel profondo, come se qualcosa di nuovo si mettesse a posto e realizzai che era stata un’impressione ingannevole: in realtà era già sera e di conseguenza avevo trascorso laggiù, nella fossa, circa dodici ore.

 

Le Quattro Fontane.

 

Mi accorsi che piovigginava e il vento agitava i miei cenci, in qualche modo mi percepii terribilmente pallido, con i capelli scompigliati, gli occhi arrossati ricoperti di calce … Il quadro che avevo attorno era così terribile, così impressionante che più lo fissavo più mi appariva inverosimile, ma allo stesso tempo maestoso, grandioso; in un certo senso cominciò ad apparirmi perfino sempre più bello. Esso mi sembrava un quadro dell’inferno dantesco in stile Gustav Dore. Rimasi immobile e non potei distogliermi da esso, perché era come se improvvisamente fossi riuscito a dare un’occhiata ad un modo nuovo e sconosciuto. E cosa terribile era, tuttavia, riconoscere in esso alcuni tratti famigliari.

Ecco, in lontananza lo stretto – ho già detto che vivevamo in alto sulla collina e che al mio sguardo si presentava un panorama gigantesco; lo stretto ora era di un colore azzurro grigiastro, più in là i contorni delle montagne della Calabria che apparivano aggrottate, al di qua la distesa di colline e monti della Sicilia. In quell’attimo mi straniò il fatto che essi – i monti – apparissero adesso come degli esseri viventi, che avessero compiuto la loro cattiva azione ed ora stessero a guardare e ad aspettare. Intorno la quiete aveva un che di sinistro, come serbasse in sé qualcosa. Regnava l’immobilità assoluta, soltanto da qualche parte tra le rovine il vento scuoteva ed agitava degli stracci e i loro bizzarri movimenti si armonizzavano stranamente col “quadro” delle montagne, era come se tutte queste cose diventate a noi ora estranee, vivessero di una vita propria, risvegliatasi e a noi ostile.

Ed ecco là il porto: si vedono alcune imbarcazioni, ma anche su di esse non c’è segno di vita … Giù sotto di me, ovunque volga il mio sguardo, un mare di rovine, un caos selvaggio di detriti, in quattro o cinque punti vedo sollevarsi colonne di fumo e il riflesso di lingue di fuoco: sono incendi. Ma non si scorgono persone e nelle vicinanze neanche un’anima. I miei occhi si spostano sulle rovine della nostra casa, e qui lo stesso caos, tutto allo stesso modo sradicato, rimestato, esattamente come se un gigantesco vortice, turbine, si fosse abbattuto e in un istante avesse tutto distrutto, rimescolato, per poi proseguire oltre.

Provo ad orientarmi, dove sia la strada, dove il boschetto di ulivi accanto alla casa. Il cortile tra la casa e il boschetto, isolato da un muro, è colmo di detriti fino al limite del muro stesso. Molto vicino a me, di traverso ed inclinato, c’è un letto, quasi sgombro da detriti: su di esso da sotto il lenzuolo sporgono due gambe nude di donna, dall’altro lato pendono sparsi i capelli neri. Il volto non si vede. Morta sul colpo, forse per un cedimento del cuore, sicuramente era stata coperta da quelle persone che si erano messe a scavare sopra di me. Guardo oltre e rabbrividisco: dai detriti emergono tre gambette – evidentemente due bambini che dormivano nello stesso letto e che insieme hanno trovato la morte. Questo fatto mi fa pensare ai miei, cerco con gli occhi nella direzione dove potrebbero essere. Con paura, improvvisamente affiorata, mi metto in ascolto: non un suono, non un gemito da nessuna parte. Tutto attorno è morto, addormentato per sempre. La fitta all’anima passa ed è come se mi sentissi più leggero. Meglio così. Che sia così.

All’improvviso noto in lontananza, in cima alla collina, cinque figure umane: le loro sagome scure si distinguono nitidamente sullo sfondo grigio, ma esse sembrano come “congelate” – non un suono, non un movimento. Ma sono pur sempre persone; ciò mi scuote dal mio torpore e mi sforzo di gridare, di chiamarli, ma non ci riesco, non mi vien fuori niente, non c’è voce, soltanto un misero rotto cigolio. E anche quando, non mi sentiranno, sono troppo lontane.

 

 

Quanto tempo ho trascorso in questa posizione non lo so; diventa sempre più buio, le ombre si infittiscono, la pioggia aumenta, i brandelli della camicia si appiccicano al corpo, sento che tremo, ma non ho le forze né la volontà di muovermi da dove sono, di tentare di scendere dai detriti.

Toh! Un brusio, dei passi. Da qualche parte molto vicino. Qualcuno nel boschetto si fa strada tra i cespugli. Subito rispuntano le forze e chiamo. Quel qualcuno reagisce. Si avvicina. E’ un soldato. Ci parlo, gli chiedo aiuto, di togliermi via da lì. Vedo che non si decide a salire. Dice: « trascinatevi verso il bordo ed io vi tiro via, altrimenti tutti e due sprofonderemo». C’è poco da dire, la presenza di quell’uomo mi dà la forza ed inizio a strisciare e ad arrampicarmi, mentre lui mi mostra la strada. Con senso di imperturbabilità e di fastidio passo carponi attraverso il corpo morto della donna, sfiorandogli le gambe fredde e involontariamente scoprendogliele. Sento schegge venir fuori da ogni dove, frammenti di filo metallico e pietre appuntite che mi colgono e mi graffiano; procedo con prudenza, so che l’aiuto è vicino. Ecco sono sul bordo, ecco verso di me protendersi braccia forti; a causa del brusco movimento provo un dolore acuto nelle membra addormentate, ancora un istante e sono tra le braccia del soldato. Questi si arrampica ancora un po’ con me, inciampa, ma alla fine discende e siamo sull’erba. Facendo attenzione, mi pone sull’erba vicino ad un ceppo così che possa appoggiarmi con la schiena. Lo ringrazio. Si fa sempre più buio. La pioggia raffredda ogni cosa. Io ho freddo, lo guardo, guardo il pastrano che ha indosso, aspetto che se lo tolga per coprirmi. Ma ciò non avviene. Prendo il coraggio a due mani e glielo chiedo. Sorpresa. Mi risponde malvolentieri che anche a lui serve, sennò come farebbe senza. Incombe un silenzio imbarazzante. Esita e fa per andarsene. Per farmi coraggio mi dice che proverà a portarmi qualcuno. Dopo quei due di prima e ora il rifiuto del pastrano, non credo più, non reagisco, mi lascio prendere di nuovo da una sorte di apatia: tutto mi è indifferente, la stanchezza aumenta.

Dopo che se ne fu andato, si fece buio completamente. Giaccio sull’erba nel boschetto accanto al ceppo da solo, non ci sono più pericoli immediati. Ma già non so se essere felice per la mia semi-salvezza oppure no, i sentimenti si sono acquietati ma la ragione insiste: tanto lo stesso perirai, non ci sono soccorsi; per dei minuti penso con acredine alla mia gamba, ah! se la si tagliasse subito perché è lì che sta il pericolo. Questo “tronco” gonfio, annerito e privo di vita. Poniamo il caso che di mattina mi prestino soccorso – rifletto-, ma chi e come mi porterà giù in città, e poi li non c’è niente, dovranno quindi portarmi a Napoli, il che significa che l’operazione è pensabile solo là. Come è lontano e irrealizzabile tutto ciò e inoltre l’aiuto vero serve adesso, subito. Dopo sarà tardi, sarà tutto inutile.

Nell’oscurità sento dei passi e delle voci. Chiamo di nuovo. Cominciano a cercarmi, alla fine mi scovano. Distinguo a fatica. Le loro voci sono rozze e poco affabili. Tuttavia mi propongono di portarmi via non lontano da lì. Da un lato è quello che vorrei, dall’altro è dura andarsene per sempre, senza aver visto per l’ultima volta i corpi dei miei cari, senza averli salutati. Inizio a dire che la mia famiglia è sepolta lì. E’ chiaro che a nessuno viene in mente di salire sulle macerie a quest’ora di notte. E’ una situazione pesante, di sofferenza. Non c’è niente da fare, che mi portino via. Mi sollevano e attraversano con me il boschetto. Ci allontaniamo cinquanta passi dalle macerie e ci ritroviamo già presso una casupola. Accanto un falò. Attorno è seduta della gente: bambini, donne con i fazzoletti sulla testa, tutte persone semplici; feriti non ce ne sono. La mia apparizione richiama l’attenzione generale. Cominciano ad interrogare i pastori che mi hanno portato. Dicono che forse morirò. Nessuno si decide a parlare con me per un qualsivoglia motivo, in generale mi guardano come uno arrivato dall’altro mondo. Nessuno pensa a darmi dell’acqua o a coprirmi. E così giaccio disteso insanguinato, cosparso di calce, con la camicia a brandelli, sopra una tavola. Guardo la gente, il crepitio del falò, le scintille, i bambini inconsapevoli che si divertono attorno al fuoco, e all’improvviso qualcosa mi sale alla gola, si fa sempre più forte, non riesco a dominarmi e alla fine prorompo in singhiozzi, le lacrime scorrono copiose. Tremo tutto … Tra le lacrime sento che il discorso cade di nuovo su di me, alcuni mi biasimano, dicono che sono un ingrato, che Dio mi ha salvato ed io piango. Due di quelle donne con i fazzoletti si avvicinano e cercano di convincermi, di calmarmi; avendo saputo che mia moglie e il bambino sono rimasti sotto le macerie, mi consolano dicendo che tutti loro hanno dei cari che sono rimasti uccisi, che questa è la volontà di Dio, che evidentemente quelli che sono morti dovevano essere dei peccatori e per questo Dio li ha puniti.

 

 

La necessità di rispondere, di parlare, un po’ mi tranquillizza. Sono di nuovo solo. Siedo e penso non so a cosa, guardo le scintille portate vie dal vento, la pioggia è cessata.

La notte si prolunga senza fine. La gente ha freddo, s’imbacucca con scialli e fazzoletti. Presto attenzione ai loro discorsi. Ognuno racconta dove e come l’ha sorpreso la catastrofe, come si è salvato, come sono morti i suoi cari; ascolto come contano impassibili il numero dei loro morti e perfino di quelli rimasti vivi sotto le macerie – non capisco, che cosa è mai questo? La mente di questa gente è rimasta a tal punto sconvolta, da ottundere tutti i loro sentimenti, da rivolgergli dentro tutto sotto sopra? O è una questione di carattere freddo, irreprensibile, di fatalismo semi-orientale? Parlano molto di fame, di cibo, di come e cosa mangeranno domani. Anche un solo giorno senza cibo gli si presenta terribile, come causa di morte sicura.

Il freddo aumenta, di nuovo pioviggina, il fuoco si spegne. La gente a poco a poco si sposta dentro la casupola, portano lì anche me, tentano di sistemarmi per la notte, ma non gli riesce. Di tanto in tanto, fuori, tutto di colpo si risveglia, all’improvviso si sente il raglio degli asini, il grido dei galli e subito segue una nuova scossa. Peculiare è il tremolio e il fruscio del boschetto di ulivi, e la gente terrorizzata, pregando, supplicando, piangendo, come impazzita, spingendosi l’un l’altro, si porta fuori dalla casupola. Il panico contagia tutti, ma rende tutti in qualche modo importanti; portano fuori anche me e mi pongono sulla terra nuda, bagnata. Un po’ alla volta tutti si tranquillizzano e di nuovo si sistemano all’interno. Questa scena si ripete molte volte nel corso della notte. A me intanto sono iniziati dei forti dolori alla schiena, alle gambe e non posso stare a lungo nella stessa posizione. Chiedo di tanto in tanto di girarmi perché ho perso completamente le forze e da solo non ce la faccio. All’inizio qualcuno di loro lo fa, poi sempre più controvoglia, infine sento alcune donne osservare rudemente di non fare più attenzione a me: «pure questa, – dicono - come una femminuccia, giralo di qua, giralo di là, non gli basta essere rimasto vivo, che preghi Dio e lo ringrazi, e a noi ci lasci in pace ».

Non gli piace neanche il continuo portarmi fuori e rientrarmi nei momenti di panico; e d’un tratto, inaspettatamente, mi sollevano dal tavolo della casupola e mi mettono sotto il tavolo, spiegandosi in questi termini: «se la casa crolla, sarai protetto dal tavolo, e noi poi ti tireremo fuori». Questa prospettiva, dopo aver trascorso dodici ore nella fossa, non mi allieta affatto e protesto, ma vedendo che le mie parole rimangono senza effetto, raccolgo le ultime forze e quando tutti si precipitano fuori durante la scossa, striscio via da sotto il tavolo e mi trascino al di là della porta. La pioggia è battente ed io siedo, con le ferite rapprese, nudo, direttamente in una pozzanghera. Non ho le forze e non mi sposto da nessuna parte. Tutti sono tornati dentro. Fuori ci sono solo io, sto congelando e non sono coperto. Sono forse essere umani questi?

In uno stato di semidelirio trascorro bagnato ed intirizzito la notte intera. Nessuno porge più attenzione a me. Lentamente, lentamente sorge ad oriente un barlume di luce. Il giorno comincia grigio.

 

 

Ecco è mattina: la gente comincia a muoversi, ci si dà da fare e si parla di cibo, si accende di nuovo il fuoco. Tra la gente scorgo volti nuovi. Uno di questi, evidentemente un uomo di cultura, avendo saputo che c’era uno studioso straniero, mi si avvicina, mi interroga, mi porta un sorso di vino, promette di trovare dei soldati per sfollarmi, mi copre con qualcosa le spalle, si sforza di tranquillizzarmi, mi stringe le mani. Non voglio crederci, mi vengono le lacrime agli occhi e vorrei stare sempre col capo poggiato sulle sue spalle. Mi portano dentro la casupola, mi mettono su un materasso e con mia non poca sorpresa mi accorgo che mi coprono con la mia pelliccia, quella che i miei due “salvatori” di ieri mi avevano tirato via da sotto la testa quando ero ancora nella fossa. Ciò significa che erano della stessa compagnia …

Giaccio sdraiato semicosciente, ogni tanto grido qualcosa, è come se tutto attorno girasse.

Ecco di nuovo mi ritrovo all’esterno, hanno portato fuori il materasso. Il sole a volte fa capolino tra le nuvole, la natura meridionale sorride, come niente fosse accaduto. La gente si affaccenda attorno al fuoco, c’è odore di minestra. Ho intorno delle persone, riconosco i soldati e il mio “benefattore” che si adopera e si sforza di dimostrare qualcosa. Mi si avvicina il loro caporale, un giovane dal viso affabile e pieno d’energia, racconta che fino ad adesso soccorsi non se ne sono visti, ma che lui e i suoi compagni sono gli unici casualmente scampati di intere compagnie di soldati, periti sotto le macerie di caserme che si trovano non lontane da qui. Dice che ritengono loro dovere salvare quelli che possono, che uno di loro è già rimasto schiacciato durante queste opere volontarie di salvataggio; che ci sono gli sciacalli che saccheggiano tra le rovine, che loro gli danno la caccia e gli sparano addosso senza pietà. Dice che sono pronti a tentare di portarmi giù in città, ma che non sanno se laggiù l’evacuazione dei feriti sia stata già organizzata, anche se da lontano hanno scorto persone con le barelle. Gli stringo la mano, lo ringrazio ed inizio a pregarlo con discrezione di una cosa: che tentino di recuperare i corpi di mia moglie e del bambino, perché possa accomiatarmi e dargli sepoltura. Mi accorgo che il suo volto si incupisce, non vorrebbe rifiutarsi, ma allo stesso tempo si rende conto che è una richiesta infantile, inutile e ruba solo tempo, e inoltre può esporre i suoi compagni a rischi non necessari. Il mio “benefattore” mi prende per mano, mi tranquillizza e si sforza di farmi capire tutta la difficoltà e inutilità di un simile tentativo, ma io insisto e nella mia voce sono percepibili tali accenti che questa gente, realmente onesta e buona, è pronta a fare anche questo. Se ne vanno. Gli indicano il luogo delle macerie. Non sarà difficile riconoscerle, visto che ci sono in tutto tre case laggiù.

Non passa neanche un quarto d’ora che all’improvviso, ansimando, arriva di corsa uno dei soldati e dice che li hanno trovati tutti e due vivi. Il cuore mi si blocca. Non oso crederci. Comincio terribilmente a temere che si tratti di un errore. No, la donna dice di essere straniera, moglie di uno studioso e con lei c’è un bambino. Tremo tutto e piango. Mi sovviene che accanto a noi, nella casa posta in diagonale, viveva uno studioso inglese, anche lui con la moglie e una bambina, anche se più grande di Sergio. Sono sicuro che si tratti di loro e non dei miei: d’altronde le loro voci ieri non le ho sentite. Certo, fra noi può essersi formata una parete spessa di alcuni metri di pietre e sabbia, che può aver impedito il passaggio di suoni fievoli, ma lo stesso non voglio crederci. Avrebbe troppo dell’incredibile, lo vorrei troppo. Ho paura, paura, ma in qualche posto nel profondo dell’anima c’è qualcosa che geme ed esige che ciò sia vero.

Il soldato corre via di nuovo. Trascorrono venti penosi ed orribili minuti. Il mio nuovo conoscente mi tiene per mano ed evidentemente indovina, percepisce indirettamente ciò che accade nella mia anima …

 

 

All’improvviso vedo accorrere donne, bambini; arrivano due soldati, uno di loro porta premurosamente tra le braccia qualcosa di bianco, e da esso giunge un pianto lamentoso. Dio, ma è il mio piccolino, sì è lui, adesso vedo e non ho dubbi; mi sollevo dal mio giaciglio, allungo le braccia, lo afferro, gli tiro via di dosso gli stracci in cui è avvolto, lo esamino, lo stringo, rido, piango, credo e non credo, non ha lesioni, soltanto le gambe graffiate di sangue, gli occhi ricoperti di calce, li apre a fatica, piange senza sosta e non riesce a calmarsi. Delle donne lo prendono e gli infilano in bocca un cucchiaio di minestra. Sento che dicono: « trenta ore è rimasto sotto le macerie». Povero mio piccino! Io ora guardo lui, ora socchiudo gli occhi, ora stringo la mano ai soldati e al mio “benefattore”.

Ma ecco di nuovo accorrere un soldato che dice che il lavoro procede bene, che si sono procurati da qualche parte delle vanghe e scavano, ma occorre procedere con prudenza perché i detriti non franino. Poco dopo un altro soldato: dice che da sopra hanno tolto tutto, soltanto le gambe della donna sono bloccate a tal punto che occorre segare in due delle tavole o forse delle travi.

Passa all’incirca mezz’ora e accorre un ragazzo che grida: « la portano, la portano». Alcuni soldati su una barella improvvisata, ricavata da una porta scardinata, trasportano mia moglie e la poggiano per terra. L’aspetto è molto affaticato, i capelli scompigliati … Difficile descrivere l’ansia che afferra entrambi e la gente attorno a noi. Le domando se abbia preso dei colpi - fra un mese deve avere un bambino. Risulta essere ferita soprattutto alle gambe: più di trenta ore è rimasta sulle ginocchia con Sergio tra le braccia.

Il loro salvataggio non è meno sorprendente. Sergio due ore prima del terremoto si era svegliato, aveva cominciato a piangere e a grattarsi. Nel dormiveglia mia moglie si era alzata e l’aveva preso con sé nel letto. Al momento della catastrofe si era svegliata per la scossa, aveva fatto in tempo a prendere in braccio Sergio e a balzare sul pavimento tra i due letti. D’improvviso, alla luce del lampione sulla strada che illuminava le finestre, vide che la parete di fronte si fendeva, cominciava a venirgli addosso e in quel momento due sportelli dell’armadio, poggiato a quella parete, di colpo si spalancarono e l’armadio iniziò a cadergli sopra. Cadde appoggiandosi con le estremità su entrambi i letti, proteggendo lei e il bambino: tutto questo, insieme sprofondò giù da qualche parte. Si ritrovarono in tal modo sotto una specie di volta; le incavallature crollate attorno e delle tavole avevano coperto l’armadio. Lei aveva provato a chiamare aiuto, ma il bambino aveva iniziato a innervosirsi, la tirava per i capelli e non le permetteva di gridare, lei d’altro canto non sentiva nulla e pensava che io fossi morto. Sergio naturalmente non capiva niente di ciò che succedeva. Nel corso della giornata trascorsa sotto le macerie il bambino aveva chiesto di venire da me. Avendo visto un pezzo di calce, aveva pensato si trattasse dello zucchero e aveva chiesto di darglielo. Chiedeva da mangiare, da bere, si addormentava. La mattina seguente si era molto indebolito, piangeva e chiedeva da bere in continuazione. L’impossibilità di accontentarlo aveva spinto alla disperazione mia moglie, che con terrore pensava a come le sarebbe morto tra le braccia. Quando i soldati iniziarono ad arrampicarsi sulle rovine della casa, lei li sentì ed iniziò a chiamare, uno di loro si calò in una fossa e attraverso un’apertura nel caos dei detriti le riuscì di passargli nelle braccia Sergio.

 

 

Quando ci fummo un po’ calmati, i nostri soccorritori ci convinsero che dovevano tentare di trasportarci giù al porto. Il trasferimento di mia moglie ferita e in quello stato, semplicemente sopra una tavola di legno, non conoscendo per giunta la strada, essendo quella abituale tutta ricoperta dai resti delle case crollate e occorrendo pertanto girarci attorno, ci sembrava rischioso; per questo fu deciso di comune accordo che lei riposasse e con Sergio rimanessero sotto controllo del nostro “benefattore” e di due donne che da quel momento non si sarebbero allontanate; nel frattempo i soldati mi avrebbero portato giù in città, dove io avrei provato a procacciare una barella e un medico perché la potessero trasportare con la maggior cura possibile.

Ci salutammo. Quelli che rimasero con lei mi promisero che si sarebbero presi cura di loro. A me i soldati mi sistemarono su due tavole disposte su una scala trovata non si sa dove, mi sollevarono sulle spalle, mi coprirono con la pelliccia e partirono. All’inizio i rami degli ulivi mi sfioravano il viso e morbidamente mi picchiettavano, poi uscimmo in luogo aperto e, dondolando dolcemente, era come se nuotassi stando sulla schiena. Sopra di me un cielo azzurro e gioioso, qua e là nuvole bianche che fluttuano, il sole che colora d’oro ogni cosa, gli uccellini che cinguettano. Un’ineffabile senso di gioia mi afferra, si sparge per tutte le membra, tutti appaiono fratelli, tutto attorno è così dolce e bello. In alcuni punti la strada si fa più difficile, i soldati sono costretti a deviare sempre più a lato, passiamo attraverso orti, vigne, ripide discese, il giro diventa sempre più largo. Ci imbattiamo nelle macerie, a volte abbandonate, a volte con quelli che vi scavano sopra e con accanto la gente. Ecco, passiamo davanti ad alcune particolarmente massicce. Vicino una folla. Da sotto le rovine provengono urla terribili e strazianti, gemiti. Tutto dentro di me rabbrividisce, riaffiora la sensazione di quell’orrore provato nella fossa. Questo adesso mi appare come un incubo terribile e lontano. Dalle macerie proviene anche un forte odore di cadavere. La gente che sta attorno ha un aspetto smarrito, indeciso, prestano ascolto alle urla, ma loro stessi non prendono nessuna iniziativa. E’ come se le urla li paralizzasse. Mi vengono in mente i ragionamenti sentiti il giorno prima attorno al fuoco, che Dio ha punito i peccatori e perfino i parenti non osano provare a liberarli da sotto le macerie, perché ciò significherebbe andare contro la volontà divina.

 

La stazione ferroviaria

 

Alcune donne della folla, con gli occhi fuori di senno, afferrano per le maniche i soldati che mi trasportano, gli dicono qualcosa, li pregano, ma noi passiamo oltre. Il tempo inizia a guastarsi. Il cielo si copre di nuvole, da un momento all’altro comincerà a piovere. Inizio a preoccuparmi. La strada si è allungata di molto. Camminiamo già da due ore invece dei venti minuti che avevo previsto. Non lontano si scorge già la strada ferrata, ma noi stiamo scendendo molto al di qua della stazione. E fra l’altro il piano era di scendere verso il porto e raggiungerlo affinché da qualche nave potessero mandare su una barella per mia moglie: ero sicuro che ci avrebbero sfollati a Napoli via mare. Iniziano ad incontrarsi soldati con le barelle ed infermieri, si sente un ordine, significa che i soccorsi sono arrivati e sono già organizzati. Ci si avvicina un ufficiale e dà delle disposizioni. Cerco di sapere come stanno le cose, ma inutilmente, tutto adesso scorre veloce e secondo un corso preciso. Il mio Caporale alla fine si avvicina e mi spiega che è stato dato ordine di sfollare tutti a Catania attraverso la ferrovia e che loro devono mettermi su un treno pronto non lontano da lì. Mi agito, lo prego inutilmente, loro non possono far niente: in tutta la zona è stato proclamato lo stato di guerra e i subordinati non possono discutere né agire contro gli ordini. Ma mi consola, mi rassicura dandomi la parola che tornerà subito lassù, comunicherà dove sono diretto, lui stesso porterà giù i miei e li fare partire per Catania. Lo imploro e lui cerca di calmarmi, giura che farà tutto. Ed effettivamente questo onest’uomo fece tutto ciò che promise. Nonostante la bufera che si era levata, nonostante la notte che era scesa, egli ritornò lassù, comunicò ogni cosa, e il mattino seguente portò giù mia moglie e Sergio, dopo essersi procurato da qualche parte la barella; gli diede da mangiare del cioccolato e li mandò a Catania. Nonostante tutto ci sono le persone veramente buone a questo mondo. Questo Caporale era dell’Italia settentrionale, del Piemonte, aveva gli occhi chiari e lo sguardo aperto e coraggioso.

 

Accampamento di sfollati.

 

Mi portarono fino al treno: una lunga fila di vagoni merci, stipati di feriti e di moribondi sdraiati sul pavimento, uno a ridosso dell’altro. Accanto ai vagoni l’ufficiale che impartiva gli ordini, provai a parlargli, pregandolo di lasciarmi aspettare la moglie e il bambino, inutilmente: nel caos che si era venuto a creare attorno non poté neanche sentirmi. Mi spinsero disteso dentro il vagone, il Caporale mi strinse la mano, ed io sono di nuovo solo, strappato dai miei. Come, quando e dove ancora ci vedremo? E che cosa succederà se ci perdiamo, se li porteranno in un altro posto, forse servirà loro aiuto. Disperato, impotente, giaccio sul pavimento del vagone, che lentamente si trascina lontano - chissà dove; nel vagone l’oscurità assoluta, entrambi i battenti sono spalancati, il vento proveniente dal mare sferza, comincia a piovere a dirotto: gemiti, lamenti, singhiozzi; gente mutilata, con i crani sfondati, con gli arti spezzati, con le viscere schiacciate, moribondi, gente che non ce la fa più per i dolori, senza cure, senza un sorso rinfrescante d’acqua, gente che viene portata via lontano da quel posto di morte e orrore. Qualcuno, evidentemente impazzito, borbotta frasi sconnesse, di tanto in tanto interrotte da brusche grida. Terribile, pazza notte senza fine. Lento, lento si trascina il treno, si ferma, fischia lungamente ed in modo sinistro, cigolando, nuovamente si mette in movimento, nuovamente sobbalza, ogni curva repentina si ripercuote in tutte le membra e le ferite fanno male. Quando, quando arriveremo! Ecco una stazione. Qualcuno sale nel vagone, un moccolo di candela si accende, c’è traffico, portano via qualcuno morto. Di nuovo il treno si muove, trema tutto e sobbalza.

I miei pensieri sono lontani sulla collina, dove sono rimasti Sergio e mia moglie, cosa ne è di loro? Ah, se questa notte passasse più in fretta, notte buia ed infernale. Ed invece si trascina lenta, a fatica, come se lo facesse a posta.

Ma ecco infine l’alba. Il treno è giunto in una stazione illuminata a giorno. E’ Catania.

[continua...]

 

* Questa pubblicazione è stata resa possibile per gentile concessione di Pierre Tchakhotine, pertanto tutti i diritti sono riservati. Non sono ammesse riproduzioni anche parziali e in qualsiasi forma del testo.