Speciale Centenario



Andate via, diavoli! Non scavate!

Un piroscafo giunge in prossimità dello Stretto di Messina qualche attimo prima del terremoto. La nave traballa, ma nessuno comprende cosa sia successo. Fino a quando... E' il racconto di un altro testimone di quei tragici giorni di dicembre di cento anni fa. L'autore: un russo, studente dell'università di Napoli, che si firma Konstantin K. - certamente uno pseudonimo o un'abbreviazione. Konstantin appone al suo scritto la data del "febbraio 1909" e lo fa pubblicare in Russia all'interno di una collana scolastica divulgativa. In Italia viene tradotto per la prima volta ed è di prossima uscita per le edizioni Michele Intilla, in collaborazione con la rivista "Centonove", in un volume che comprenderà altri inediti di autori russi. Ne pubblichiamo in anteprima alcuni stralci.

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macerie del terremoto di Messina 1908Il 28 dicembre alle 5 e 25 del mattino, un grande piroscafo si avvicinava allo stretto di Messina, che separa l'Italia Meridionale, la Calabria, dalla Sicilia. Improvvisamente tutti i passeggeri furono colti da spavento: il piroscafo cominciò a vibrare, si scosse tutto e iniziò a sbattere da una parte all'altra, come se all'improvviso si fossero rotte violentemente le macchine; ciò durò alcuni istanti. Nessuno di quelli che si trovavano sul piroscafo capì di cosa si era trattato. Entrato nello stretto, il piroscafo fu costretto a fermarsi: non c'era nessuna possibilità di andare avanti. Tutto lo stretto era ingombro di barconi rotti, chiatte, botti, barche capovolte, tavole, mobili, tra i quali, qua e là, erano appena visibili figure umane che gridavano e invocavano aiuto. In lontananza, nell'oscurità, dove doveva trovarsi Messina, erano visibili soltanto rosse, serpeggianti lingue di fuoco che si perdevano nel cielo grigio piangente e illuminavano il caos che regnava intorno. Si vedeva il fuoco dimenarsi febbrilmente da un lato all'altro, come si affrettasse da qualche parte, gonfiato dal forte vento, e di minuto in minuto cresceva sempre più divorando le macerie. Un rosso bagliore tremolava nel cielo.
- Salvatemi! C'è stato il terremoto! Affogo! - erano grida che giungevano fino al piroscafo dai detriti galleggianti nell'acqua.
Poiché il piroscafo non poté avvicinarsi a Messina, calarono una scialuppa, e dopo alcune ore essa tornò stracolma di feriti gravi; li presero a bordo. Furono calate ancora delle scialuppe
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Albeggiava quando io con i marinai del piroscafo ci avvicinammo con la barca a Messina. Ci toccò superare molte difficoltà tra le tavole galleggianti, barconi rotti e altra masserizia. Proprio vicino alla riva la nostra barca urtò in profondità con qualcosa di duro. Aggirammo l'ostacolo e approdammo. Percorrendo a piedi la riva ci avvicinammo a quel punto dove la nostra barca aveva urtato, e vedemmo nell'acqua trasparente del mare un'intera fila di vagoni merci; si trovavano in quella parte della banchina che era sprofondata in mare.
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A causa degli ammassi di macerie era diventato difficile definire la direzione delle strade una volta esistenti. Non c'erano case. Non c'erano strade. Non c'era Messina!
Scavalcammo un grande pianoforte a coda, le cui corda risuonarono, come se gli avessimo toccato le ferite aperte. Due grossi cani, avendoci visto da lontano, si diedero alla fuga - stavano mangiando un cavallo rimasto schiacciato.
Ma i cumuli di macerie che ci circondavano non erano morti; vivevano di una vita terribile - di una vita che profumava di morte; gridavano di mille voci, invocavano aiuto. Da ogni lato ci giungevano gemiti, urla . La pioggia cadeva. Era l'agonia di Messina.
Qua e là il fuoco, che andava spegnendosi, rosicchiava le rovine e da esse già non si sentivano più grida - il fuoco aveva ordinato loro di tacere. La terra tremò leggermente. Non si udì neanche il boato sotterraneo, ma la scossa fu sufficiente a far schiantare al suolo le mura e le case lesionate ed inclinate. Invocazioni e grida risuonarono più intense da sotto le macerie.
Su un cumulo di detriti, accanto al quale si levava una piccola parte di una parete di pietra, vedemmo della gente svestita che raggruppata a mucchietto sedeva silenziosa sotto un ombrello. Era un'intera famiglia: padre, madre e tre bambini.
- Venite con noi - disse loro invitandoli il marinaio. Vi daremo da vestire e da mangiare. Venite!
- No - rispose bruscamente la madre. Non vogliamo lasciare la nostra casa dove sono sepolti i miei due figli. Vogliamo morire qui.
Essa non piangeva, aveva parlato senza fare il minimo movimento, senza guardare il marinaio; i suoi occhi guardavano senza senso chissà dove di lato.
Il marinaio voleva replicare qualcosa, ma lo interruppe il padre della famiglia; che in biancheria da notte balzò in piedi e gridò selvaggiamente: - Che muoiano tutti! Perché dovremmo vivere adesso? Siete dei diavoli! Andatevene! Andatevene! Questo è un luogo sacro! Adesso qui - ecco li sentite? - muoiono i miei due figli! Li sentite? - E di nuovo si mise a sedere nello stesso posto.
Noi volevamo provare a tirar fuori i bambini scavando con le mani, ma appena ci avvicinammo al cumulo di massi e pietrisco, di nuovo il padre scattò in piedi e ci scagliò con forza un'enorme pietra, ma mancò il bersaglio.
- Via! Via da qui! Questo è un luogo sacro! Via! Avete capito?
Era impazzito. Sua moglie e i bambini non si mossero - talmente forte era stato lo shock dell'orrore vissuto.
Ci allontanammo, e loro in silenzio, stringendosi l'un l'altro, rimasero seduti sui resti della loro casa sotto un unico ombrello.
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[traduzione dal russo di Giuseppe Iannello]