Speciale Centenario



I MARINAI RUSSI. OLTRE IL MITO

A Messina furono giorni di vera gloria. Ma organizzazione e disciplina non bastano a spiegare la fama indiscussa di salvatori ed eroi

 

L'incrociatore Admiral MakarovSei giorni di gloria. Quella vera, quella capace di sfidare il tempo e i giudizi a posteriori degli studiosi. Una gloria tramandata dai giornali, ma soprattutto tramandata dalla gente, dal popolo che ha visto con i suoi occhi e udito con le sue orecchie. I marinai russi sono entrati nella memoria collettiva come eroi, come salvatori oscurando tutti gli altri soccorritori. Perché? Una domanda inutile se si prescinde dal “racconto” di quei sei giorni e ci si imbarca in analisi storiche e psicologiche. Perché la risposta sta nei fatti, nelle gesta stesse di quelle migliaia di marinai che giunsero su ben sei navi della flotta militare russa.


Sono molti i miti da sfatare e gli “aggiustamenti” da fare per evitare che l’eroismo di popolo sia identificato con quello di singole figure che nella realtà furono solo catalizzatori di esigenze che nascevano da un’anima collettiva. Ci riferiamo ad esempio ai generali, agli ammiragli. Il comando della spedizione esercitazione nel Mediterraneo della Flotta del Mar Baltico era stato affidato all’ammiraglio Litvinov e a lui arrivò nel porto di Augusta la richiesta delle autorità locali di prestare soccorso ai messinesi. Ma non fu lui che “decise” di muoversi, lui aveva bisogno di un benestare superiore, aveva bisogno di un ordine; il che avrebbe significato la perdita di molte ore in attesa di quell’ordine. Furono i suoi subordinati, ufficiali, guardiamarina, marinai semplici che compresero la situazione e che fecero pressione perché si partisse subito alla volta dello Stretto. E così fecero. Ce lo racconta nelle suo libro memorie (“La flotta imperiale del Baltico tra due guerre. 1906-1914”) Garald Graf, allora guardiamarina nell’Admiral Makarov, la prima delle navi russe a partire. “Litvinov non era un uomo che sapeva decidersi” ma alla fine si fece convincere.

Fin dall’inizio l’obbedienza e la disciplina non spiegano l’efficienza e il successo dell’opera di soccorso dei russi. In “La terra trema” di Giorgio Boatti addirittura si giunge a parlare di “quasi disumana disciplina”. E’ vero, durante le ore di navigazione da Augusta i russi avevano avuto il tempo di organizzarsi in squadre, di preparare tutto quanto sarebbe potuto loro occorrere. Ma lo stesso avrebbero potuto fare anche altri. Non sta qui il merito dei russi. Non sta né nella disciplina, né nell’organizzazione, non sta nel metodo della loro azione tanto esaltato. Ci pensa Michail Osorgin, un compatriota di quei marinai, a infrangere il mito del “metodo”. E lo fa subito, ad appena un mese dalla catastrofe, in una lunga corrispondenza da Roma per il suo giornale, il “Vestnik Evropy”. La reputazione della marina russa era “caduta a picco” nella disfatte della guerra russo giapponese. L’unico metodo che ha condotto i marinai fu per Osorgin quello di salvare quante più “anime” possibili, la differenza con tutti gli altri la fa questa tremenda esigenza di strappare alla morte quante più persone possibili.
L’organizzazione fu dettata da questa esigenza: gli orari, i turni, tutto era funzionale a questo fine, non avevano valore in sé; la vita delle persone veniva prima degli ordini e in ciò furono i marinai semplici a convincere i propri superiori a rimodulare gli ordini. D’altronde doveva suonare proprio strano alle orecchie di un russo sentire esaltata l’organizzazione del proprio esercito: che dire allora – dice il giornalista russo - dell’organizzazione e della disciplina di quello tedesco che pure si rese presente suoi luoghi del disastro?
I marinai russi fecero da catalizzatore di tutte le energie positive contro la rassegnazione, lo sconforto, che spesso si trasformava in apatia, in una sorta di indifferenza che spesso si trasmetteva anche ai soccorritori. L’azione dei russi era contagiosa al contrario e i cadetti del Sutley, la prima nave militare inglese a giungere, forse qualche decina di minuti prima della Makarov, la subirono e seppero parimenti distinguersi.

medaglia - fronte medaglia - retro

Nessuna macchia pertanto sull’operato dei russi? Quella della fucilazione immediata degli sciacalli, dei ladri colti in flagrante: è interessante tuttavia notare come questo particolare sia espresso soltanto nei resoconti giornalistici e sia stato giudicato un aspetto irrilevante dalla memoria collettiva, da quella memoria orale e scritta tramandata dai superstiti di padre in figlio, di generazione in generazione. I russi in realtà non si occuparono direttamente della caccia agli sciacalli, ma giravano armati per difendersi e difendere una popolazione totalmente esposta alla malvagità degli approfittatori o della disperazione. I russi (e gli inglesi) non si occuparono della difesa delle cose e della proprietà – come non si occuparono di seppellire i morti – si occuparono di ciò che palpitava ancora sotto le macerie e di lenire le ferite dei sopravvissuti.
Ne parliamo con Tatiana Ostakhova, ricercatrice nell’Università di Messina, che ci fa leggere qualcosa del suo lavoro di prossima pubblicazione: sono le lettere dei marinai russi pubblicate sui giornali russi e altri articoli usciti nelle settimane immediatamente successive al terremoto. Le lettere sono solo in parte quelle già edite dalla Provincia Regionale di Messina nel 2006, che peraltro si basavano su un’edizione originale in francese. Sono lettere tutte caratterizzate da sentimenti comuni: l’incapacità di descrivere l’indescrivibile, l’orrore dello scenario nel quale operano, la pazzia dei sopravvissuti e l’assurdo del quale ogni ora sono testimoni. I marinai non si esaltano, non si glorificano, solo narrano e alle volte con stupore prendono atto anche dell’immobilismo delle forze italiane. I confronti li faranno gli altri, i corrispondenti, gli altri soccorritori e soprattutto la gente che non dimenticherà il bene ricevuto. E la notizia di quel bene correrà come il vento: a Napoli il primo sbarco dei feriti operato dalla Makarov si trasforma in una sorta di apoteosi per i marinai russi, che vengono letteralmente acclamati; ovunque venissero riconosciuti nella città i marinai russi non potevano sottrarsi a calorose manifestazioni di gratitudine.

Michail Pervuchin nel suo articolo “I russi e gli italiani”, tradotto dalla Ostakhova, sintetizza bene la differenza tra i russi e tutti gli altri. Gli stranieri delle altre nazioni, offrendo il loro aiuto si sono dimostrati amici, mentre i russi sono risultati fratelli. Il corrispondente lo afferma sulla base delle testimonianze raccolte e di quanto letto nei giornali napoletani: “ gli altri certamente hanno aiutato; ma i russi non hanno soltanto aiutato, hanno dato tutto ai profughi, fino alla maglietta di ricambio”. “A Palermo e Napoli – prosegue Pervuchin - le donne e i bambini, profughi delle città annientate, tutt’oggi fanno sfoggio dei giubbotti e delle giacche dei marinai, dei giubbotti degli ufficiali. Non ci sono vestiti tedeschi o inglesi sui profughi. Vestiti russi, sì”. Riporta poi un’altra testimonianza: “tutti hanno donato, però mentre gli altri davano il superfluo, l’eccedenza, i russi, e noi lo vedevamo, ci donavano ciò che era necessario a loro stessi, fosse anche l’ultima cosa che avevano. Sì, proprio l’ultima. E’ questo che ci ha colpiti”.

Tuttavia il bene non sempre richiama altro bene. Il tre gennaio alle navi russe fu dato il ben servito: grazie ma il vostro aiuto non è più necessario. Un corrispondente russo a tal proposito parla di invidia, il colonnello C. Delmè-Radclif, attaché militare dell’Ambasciata britannica di Roma, in un rapporto riservato parla di gelosia delle autorità italiane. Rimane il fatto che a scavare tra le macerie restarono soltanto i soldati italiani e pochi altri volontari: le porte furono sbarrate per tutti, civili italiani compresi. A tutti fu ripetuto lo stesso ritornello: non c’è bisogno di persone, perché l’esercito ha preso il controllo di tutta la città. Per molti, moltissimi, rimasti ancora vivi sotto le macerie la sorte era segnata.

Giuseppe Iannello