Pietro A. Zveteremich

Aggiornata il 29 Maggio 2009  •  1 Commenti

Su "La coda" di Vladimir Sorokin


Eccoci di nuovo davanti a uno di quei testi russi che, pri­ma di giungere per vie fortunose in Occidente, s'era già fatto strada, e dunque segnalato, in Urss.Come i libri di Erofeev, Kormer, Aleškovskij, Bokov, Vojnovič e decine d'altri, an­ch'esso, seppure escluso dalle stampe, ha avuto e ha i suoi lettori sovietici, i quali per primi ne hanno decretato i meriti e il successo. Il loro riconoscimento vale più di qualsiasi pre­mio letterario sia sovietico, sia occidentale, per la semplice ma decisiva circostanza che per essi leggere è un atto di vo­lontà e di coraggio. Queste opere non si acquistano nelle li­brerie, ma si ottengono alla macchia, attraverso i canali del samizdat (ormai celebre in tutto il mondo); e questo vuol dire testi dattilografati, spesso in copie di cattiva qualità (perché in Urss non si può disporre di fotocopiatrici e tanto meno di più sofisticati sistemi di riproduzione elettronica), spesso pa­gate a caro prezzo, avute per amicizia e anche con l'impegno di farne altre copie. Ma, soprattutto, il fatto stesso di leggere e di possedere testi del samizdat costituisce reato, come il possesso di droga, ed è perseguibile - e perseguito - penal­mente. In poche parole per leggere questo Sorokin e la sua Coda si può finir dentro, come per la Bibbia o un testo poli­tico considerato dalle autorità come «anti-sovietico».

Si capisce così che resistere alla selezione del samizdat, dove i giudici rischiano in proprio, è già un bel successo e spesso anche una prova di autenticità e di qualità. Non per niente dai canali del samizdat sono usciti, o comunque per essi sono passati, tutti gli autori della letteratura russa libera che ormai da tempo continua la grande tradizione russa e rappresenta il paese più di quella «legale».

Se gli specialisti hanno discusso - e discutono – di «due letterature russe»: quella «sovietica» e quella «emigrata» o al bando in patria, mentre in realtà ci sembra che esista un'unica letteratura i cui autori e libri vivono in situazioni diverse ed esprimono messaggi diversi e antitetici, ciò significa che la cosiddetta «letteratura russa 2» non è meno importante della «letteratura russa 1». A nostro avviso lo è di più, sia per ciò che oggi offre al lettore e al critico, sia perché essa è l'erede di tutta la tradizione letteraria russa del '900, che cominciò a essere prima «potata» e poi stroncata dal regime sovietico. La maggior parte dei grandi poeti e prosatori russi della contemporaneità (dall'Achmatova a Mandelštam, dalla Cvetaeva a Pasternak, da Zamjatin a Bulgakov, da Platonov a Babel' - e valgano questi pochi per i molti) sono stati - e ancora non integralmente - «riammessi» alla circolazione culturale soltanto dopo la metà del secolo da uno Stato che si arroga il «diritto d'espulsione dalla poesia». Dai fondachi del vituperato regime zarista non s'è tirato fuori quasi nulla, perché nonostante una censura pesante la letteratura aveva un proprio spazio, ma dai fondachi del progressivo regime sovietico ce n'è tanta di roba da tirar fuori. Anzi, come  vediamo, si continua con molto zelo a nascondere e a sigillare. Per un po' di Gumilëv che esce, tutto Brodskij'[i] è negato al lettore russo, come lo sono Sinjavskij, Solženicyn, Vojnovič, Erofeev, ecc., in cambio della concessione d'un racconto in più di Bulgakov o d'un episodico Nabokov.

La coda di Sorokin è un libro in più che si aggiunge alla  sterminata lista degli odiosa per il regime. Come s'è detto, l'ha raccolto e premiato il samizdat; sulle sue ali è volato in Occidente. Qui è stato stampato a Parigi dalle edizioni Syntaxis e illustrato con la bella grafica di A. e M. Gran; poi subito tradotto in francese e in altre lingue. Eppure altri libri importanti della nuova narrativa russa hanno dovuto aspettare anni, e ve ne sono che aspettano ancora, come quelli di Iskander, di Jur'enen, di Popov, Sokolov, Vachtin, ecc. ecc. C'è molta feconda invenzione nelle lettere russe d'oggi. E dunque come mai Vladimir Sorokin, un autore sui trent'anni che vive a Mosca ed era finora sconosciuto, ha suscitato una così subitanea curiosità? Si deve pensare che ciò si debba anzi tutto al fatto che il suo è un libro curioso o perlomeno insolito: tutte le duecento pagine del suo racconto sono uni­camente dialogo; un dialogo, inoltre, quasi sempre di battute d'una parola, di monosillabi, interiezioni, sospiri. Non c'è una frase, non c'è una riga di descrizione.

È facile obiettare: esiste un precedente classico: già la Ivy Compton-Burnett scriveva così. Invece no, perché, a parte il fatto che per la letteratura russa questa maniera sarebbe già una novità, Sorokin va oltre la scrittrice inglese. I suoi dialo­ghi erano pur sempre introdotti dall'autore commentati, laddo­ve Sorokin li deposita intatti sulla pagina, senza alcun pro­prio intervento esterno. Prendiamo il famoso Madre e figlio e leggiamo: «...disse Miranda Hume, senza sollevare...»; «…Due ragazzi... si scambiarono...»; «...La cameriera fece entrare...»; «...disse Miranda, non senza simpatia ...»[ii] Sempre, per tutto il libro, non solo il dialogo, pur restando largamente predomi­nante, è introdotto e assistito dall'autore, ma egli dà pure rag­guagli sui personaggi, il loro modo di vestire, i comporta­menti, nonché sull'ambiente.

Nulla del genere ne La coda. Dal principio alla fine il rac­conto si snoda semplicemente attraverso le nude battute del dialogo; a esse si affida per la propria strutturazione: per il disegno dei personaggi, delle situazioni, degli ambienti, del­l'intera vicenda. Prendiamo il libro e leggiamo: «Compagno, chi è l'ultimo?» / «Di certo io, ma dopo di me...» / «E non sapete quanti ne danno a testa?» / «E voi ieri stavate in coda?» / «Ci stavo». / «Per molto?» / «Mah, non troppo...» / «Non sono molto stropicciati?» / «In principio non eran male, ma alla fine d'ogni genere...». Così sino in fondo. Come un estraneo, capitato per caso in un gruppo di persone - un crocchio in strada, uno scompartimento in treno - un po' alla volta, dai brandelli di conversazione, dalle varie pa­role, allusioni e altre cose, ricostruisce la situazione, appren­de di essa dettagli e viene a conoscere storie individuali e via  dicendo, così il lettore de La coda entra nel racconto e ci crede. L'autore non gli ha mai porto una mano d'aiuto. Lo ha immerso nei propri personaggi: e che se la vedesse lui, il let­tore, a cavarsela, a orientarsi, a vivere anche lui là dentro.

Questo è il primo risultato che Sorokin consegue: di tuffa­re il suo lettore in una realtà sgradevole e assurda, e di far­gliela assaporare sino in fondo anche se egli prima era nolen­te. Ed é una bella conquista sadica: del vero sadismo, che  rende la vittima un complice pienamente partecipe. Ma non . si pensi che questo accada soltanto al lettore russo in quanto è della partita: fa parte di quel mondo sovietico, dì quella società, ritrova qui quanto gli è familiare nella vita quotidiana, e gli può accadere di trovarsi in una coda del genere. No, Sorokin perviene a rendere la sua coda credibile, e dunque vera, anche per il lettore straniero; e a trascinarvelo dentro.

Come hanno notato due dei più attenti critici d'emigrazione, Pëtr-Vajl' e Aleksandr Genis, «...V. Sorokin ha scritto una satira globale della società sovietica. In una certa misura quest'è vero. Ma solamente nella misura in cui è orrenda la comunità umana in genere. Qualsiasi folla è repugnante e mostruosa. Qualsiasi: russa, americana, zulù, di dottori in scienze. Se La coda è una satira, essa lo è dell'umanità. Allo stesso modo in cui incute spavento l'indifferenza d'una fotografia. Tuttavia il libro di Sorokin non è un calco meccanico della realtà. La creatività dell'autore sta nel rapporto che egli ha col suo oggetto»[iii].

E si tratta d'un rapporto sapiente: non solo molto dosato, ; ma studiato nello stesso tessuto stilistico e fin dentro l'ordito tecnicamente linguistico. A prima vista, l'interminabile se­quela di battute che dà vita al racconto de La coda può sem­brare il materiale ottenuto con un registratore, ma il lettore accorto si accorgerà ben presto che l'intervento di Sorokin non consiste soltanto in un'operazione di montaggio, in ogni caso necessaria, bensì in un'operazione ancor più pertinente, selettiva e creativa sul linguaggio. A differenza di quell'inter­vento esterno a cui s'è accennato per la Compton-Burnett, si

tratta d'un intervento interno al dialogo dei personaggi per organizzarlo in racconto, rinunciando a qualsiasi altro suppor­to. Tanto che, come ancora scrivono i succitati critici, «Le repliche ne La coda sono un tessuto artistico fabbricato da un maestro sottile. Si capisce che V. Sorokin non ha scritto il libro per una qualche idea ma per l'indescrivibile gioia di ri­produrre delle parole... In sostanza, La coda é prosa fisiologi­ca chiamata a dimostrare le possibilità della parlata russa… Certo, non è una registrazione, ma un'orchestrazione medita­ta con cura. Un inno alla discorsività umana. L'affermazione della sua assoluta autosufficienza»[iv].

C'è tuttavia da aggiungere che se La coda si presenta come la satira della folla della strada, la prosa in cui tale satira si at­tua appare essa stessa come la satira del linguaggio di tale fol­la: del russo oggi parlato dalla strada moscovita. E questo me­rita un accenno. C'è un passo de Il Dottor Živago che accenna all'imbarbarimento della lingua russa e si collega pertinente­mente a La coda: Gordon e Dudorov, gli amici sopravvissuti del dottore, subito dopo la guerra, parlano d'una ragazza che si chiama Tan'ka Bezòčeredeva, come a dire «Tanja Fuoridellaco­da». Nota Gordon: «Che barbaro, orrendo nome è Tan'ka Bezòčeredeva. Non è un cognome, ma una parola inventata, de­formata. Che ne pensi?» E Dudorov gli risponde: «Lo spiega così anche lei. È figlia di ignoti, è stata una bambina randagia. Forse, nel cuore della Russia, in qualche punto dove la lingua è ancora pura e intatta, l'hanno chiamata bezotčija, nel senso che non aveva un padre. La strada, cui questo soprannome, riusciva incomprensibile, la strada che coglie tutto a orecchio e travisa tutto, l'avrà trasformato alla sua maniera, assimilandolo al suo rozzo gergo di questi tempi»[v].

Pasternak spezzava qui una lancia per l'onore della lingua russa che con tutta la sua opera egli aveva difeso, così come altri avevano fatto e altri continuarono a fare, tra cui Pausto­vskij e Solženicyn. Ma il russo della strada, della «coda», della grande rivoluzione antropologica indotta dal regime, il russo del frasario politico-burocratico-sovietico ha proceduto inarre­stabile e apparentemente invincibile. Esso ha occupato sempre nuove posizioni e si può dire che ormai lo si insegni nei corsi di lingua russa in tutto il mondo grazie alla conquistata predominanza dei manuali e dei maestri «made in Urss». Quella pronuncia moscovita che già Puskin additava quale cattivo esempio, signoreggia incontrastata e perfino incoraggiata: dall'esorbitante mutazione della «o» in «a» alla perdita di consonanti e all'apocope dei nomi.

Fenomeni degenerativi del genere si osservano in tutti i paesi, basti pensare all'italiano la cui pronuncia, per esempio, è omologata a quella pseudo-romanesca. È inutile dilungarsi qui su questa situazione generalizzata, le cui origini stanno in quella rebelión de las masas che Ortega y Gasset ci delineò già mezzo secolo fa. Per la lingua russa le conseguenze sono state più vulneranti, perché ha agito anche una volontà politica centralizzata capace della massima capillarità.

Come già avevano fatto al suo nascere scrittori quali  Zamjatin, Zoščenko, Platonov, il neo-russo-sovietico-­moscovita oggi è affrontato all'interno da Sorokin, come da Erofeev, Sinjavskij, Popov e altri, che lo smascherano e di­leggiano, facendone il materiale con cui costruire la satira. Essa ne guadagna in quanto sono i suoi stessi personaggi a rivelarsi: parlando, mettono in mostra anche i parametri della propria cultura massificata e banalizzata. In questo linguag­gio, che Sorokin adopera magistralmente, anche il turpilo­quio, le maleparole diventano significanti beanti, vuoti: di­ventano interiezione, perfino sigla. Bljad' (puttana) vive or­mai come l'interiezione bljà, eb tvojù... (fotti tua...) si riduce a minima sigla: ept. È il trionfo del linguaggio meccanizzato, colto nella sua genesi da Zamjatin col romanzo Noialtri. Ma la lingua si vendica: perduta l'autentica originaria espressivi­tà, le parole si rivoltano, manifestando, con la stessa sottra­zione del significato al significante, di cui sono state oggetto, lo svuotamento di significati di cui è vittima il parlante, ossia la strada, la coda, la folla.

Questa coda di cui ci narra Sorokin non è una coda spe­ciale, ma una coda come tutte le normali code che si forma­no endemicamente nelle città sovietiche e sono espressione della patologia cronica dell'Urss. Di ciò sono perfettamente consapevoli coloro che fanno la coda, i quali a un certo pun­to del libro dicono che «è il sistema». Un noto giornalista italiano, corrispondente da Mosca e non certo ostile, scriveva di recente: «I russi sanno per lunga abitudine che è impru­dente pensare di poter comprare le cose che servono solo quando servono, vale a dire nella stagione adatta. Rischiano di non trovarle. E così comprano quel che può servire quan­do c'è. Conosco una giovane donna che ha trovato del tutto naturale comprare per suo figlio, che ha un anno, un pullo­ver che non avrebbe potuto indossare prima d'aver raggiunto i quattro anni. "Chi può sapere se lo troverò fra tre anni?" è stata la sua tranquilla spiegazione. È tutto, o quasi tutto così. E la gente non protesta, si adatta»[vi].

Dunque non è una coda di affamati; nemmeno di bisogno­si nel senso lato della parola. Generalmente ci si sfama e ci si veste, ma non con ciò che si vorrebbe nel dato momento. E così le «voci» del dialogo di Sorokin sì scambiano doman­de e risposte su dove si trovino il burro o le patate o qualsia­si altra cosa: non si sa mai perché si farà una coda. Questa condizione generalizzata è l'essenza stessa del racconto, il suo mistero, la scoperta sulla quale esso si regge. Fino in fondo non sì saprà mai che cosa realmente riusciranno a comprare quelli che fanno la coda. C'è chi se ne va, abbandonando l'impresa; chi rimane e insiste.

Questa coda comincia di giorno, continua di notte e per un'altra giornata fino a notte, interrotta da un temporale. Ma ricomincerà non appena possibile. La coda c'è sempre: oggi in un rione, domani in un altro, ha una vita propria e ne riempie anche il rione in cui serpenteggia, invadendo vie, piazze, cortili; sovrapponendosi all'esistenza degli abitanti ed entrando in essa. Questa stessa esistenza è fatta di code an­che nei suoi intimi recessi. Per l’uso della cucina, del gabi­netto, della doccia negli alloggi in coabitazione, oltre che - come avviene dappertutto, ma in Urss più spesso - per le pratiche burocratiche, per un posto al ristorante o alla men­sa. La coda è la vita stessa in forma più addensata, più con­centrata, più esibita. Nei nostri tempi tutti fanno la coda in tutto il mondo. Fanno la coda i neonati per essere registrati all'anagrafe, fanno la coda i morti per un posto al cimitero. Unica differenza qualitativa, a parte la minore o maggiore diffusione del fenomeno, è che, mentre qui la coda è consi­derata, forse ingenuamente o forse in malafede, un disservi­zio occasionale e contingente, in Urss essa è istituzionalizza­ta. L'Urss è il primo paese del mondo ad aver volutamente

scelto la società fondata sul collettivo anziché sull'individuo: la società di massa. Prima ancora d'essere la conseguenza, come in altri paesi, dello «sviluppo», essa é stata una scelta ideologica fondata su una precisa teoria. La coda, figlia della società di massa, nel socialismo reale è un istituto.

L'enorme maggioranza della popolazione fa la coda: è un fenomeno di massa. Alla coda di Sorokin partecipa gente d'o­gni sorta, d'ogni mestiere, d'ogni ceto, ma le individualità sono amalgamate in un corpo unico, che reagisce, calcola, si esprime, si muove in modo concorde. Tra loro i componenti della coda non si riconoscono che per quest'appartenenza: non per nome o altro. Essi si apostrofano con gli appellativi di «uomo», «giovane», «donna», «ragazza», cioè i più anonimi e socialmente indifferenziati, il che corrisponde al necessario livellamento di tutti nella coda. Siamo di ceti, ambienti, me­stieri diversi, ma qui siamo tutti eguali: perfino gli appellativi «compagno» o «cittadino» sono usati di rado. I nomi di que­sta folla esistono soltanto nel rapporto con il magazzino di vendita e allora, quando si fa la conta, essi erompono come l'unica possibilità d'affermazione individuale. Non a caso la chiamata occupa una trentina di pagine nel racconto e non è un arido elenco, ma una specie di inno dei cognomi russi, ebrei, armeni, georgiani, ecc., che compongono il mosaico della folla moscovita. Su ogni cognome incombe il suo nu­mero: 1111-2-3-4-5-6-7-8-9... e sull'intera coda come organi­smo unico incombe la voce del megafono dello Stato. È esso che le dà istruzioni, ordini, divieti, autorizzazioni.

Sotto questa vigilanza, entro questi limiti, la coda può vi­vere di vita propria: respira, mangia, dorme, si agita, collo­quia con se stessa. Mediante questo colloquio collettivo l'au­tore palesa chiaramente gli argomenti e i problemi che com­muovono la strada: anzitutto la ricerca assillante di beni di consumo necessari o meno; poi i costumi che mutano, la de­linquenza, la pressione degli allogeni (georgiani, ecc.), sesso, figli, rapporti coniugali, vita domestica, ubriachezza, sport e  così via. Due o tre giovani, studenti e neo-lavoratori della mente, introducono discorsi diversi che fanno da spia della tipologia culturale diffusa tra le nuove generazioni attraverso i suoi richiami più sentiti: musica rock, cinema (molto quello italiano), letteratura di moda (Voznesenskij, Evtušenko, ecc.), arte moderna finora preclusa (Munch, ecc.). Sotto quest'aspet­to, Sorokin ha detto molto meno di quanto poteva dire: c'era­no idoli dei giovani meno banali e più aggiornati da citare. In genere, a tutti egli fa dire meno di quello che sanno: ha scelto la discrezione. A esser maligni, si potrebbe rimarcare che ha scelto la stessa reticenza che è della gente sovietica, in ciò fedele all'oggetto del suo racconto. Questa gente non è informata più di tanto, aggiornata più di tanto, e, soprattut­to, non vuol dire più di tanto ciò che ha in mente. Al lettore attento non sfuggiranno certe battute del dialogo in cui si zittisce chi apre troppo la bocca. Con questo Sorokin ci av­verte che egli non si sovrappone: tale è la strada moscovita.

Nello stesso modo discreto Sorokin fa sapere che c'è anche una non coda. «Guarda, una "Mercedes"» «Di chi può essere? Vorrei saperlo...» «Pare una targa nostra. Non diplomatica...» Poche rapide battute come queste e altre sono un'allusione perfettamente sufficiente. Non si tratta naturalmente di chi manda altri a far la coda per sé, magari a pagamento. Si tratta di qualcosa di più: di quella ristretta società elitaria, che dispo­ne di empori riservati alle categorie di rispettiva appartenenza e graduati anche secondo il livello da ciascuno occupato nelle rispettive categorie. È la famosa nomenklatura: l'alta burocrazia partitica e statale, dirigenti e privilegiati d'ogni sorta, tra cui anche il mondo ufficiale e affermato della cultura, dallo scrit­tore al musicista, dal regista all'attore. Questa società non fa la coda. Con un'altra breve serie di battute, Sorokin lo dice in faccia a chi la coda la sta facendo. Un tizio che si presenta come «scrittore» attacca discorso con la ragazza Lena e le pro­pone di lasciar perdere la coda e andare con lui in un ristorantino intimo». Segue questo scambio di frasi: «Perché allora voi stavate in coda?» / «Uno scrittore deve conoscer tutto». / «Tutto cosa?» / «Beh, la folla». Lena comprende al volo l'antifona e, non appena ne ha l'occasione, pianta in asso con una scusa il giovane compagno di coda col quale aveva avviata un'amicizia e si eclissa. Lui, Vadim, l'aspetterà invano. Lena non torna tra gli iloti della coda.

Ci resta Vadim, il quale è forse l'unico vero personaggio del racconto, in ogni caso l'unico che ci accompagna dalla prima all'ultima pagina e tuttavia neanch'egli può essere con­siderato protagonista, poiché il protagonista è la coda: questo essere collettivo camaleontico e mutante, ma sempre se stes­so. Gli altri e le altre sono sue maschere, figure, forse soltan­to voci: appaiono, scompaiono, quale per sempre, quale per tornare, ma tutte effimere e intercambiabili. Anche Vadim, forse più che un personaggio è il mentore delle lunghe ore diurne e notturne della coda. Come s'è detto, egli attacca con Lena, pare conquistarla, poi viene piantato in asso; si ubriaca con dei compagnoni casuali, litiga, discetta e disputa di tutto con tutti, mangia, soddisfa bisogni corporali, finché l'improv­viso fortunale lo spinge in un androne. Qui una gentile e belloccia quarantenne gli offre riparo, conforto e amore. Dopo una notte di voluttà Vadim scopre che costei non è al­tro che una direttrice di reparto del grande magazzino davan­ti al quale faceva con tutti la coda. Anche lui raggiungerà per vie traverse il suo scopo: acquistare.

Ma la fabula, la storia è la cosa che meno conta nel libro di Sorokin, che è il segmento, colto nel vivo, d'una azione ininterrotta, cominciata assai prima di lui e continuante dopo la sua ultima pagina. E’ l'epopea della strada - in questo caso russa, sovietica, moscovita, - senza eroi, senza eventi straordinari: i čepé, sempre secondo il gergo contratto fino a sigle di cui si diceva; della strada mediocre, rozza, avida, stanca, indifesa ma feroce, mugugnante ma imbelle. Essa non ha principio né fine: dalla plebs della Roma imperiale alla čern' di Mosca Quarta Roma, da Londra a Città del Messico. Sorokin ha voluto darle la parola, mettere in campo le sue voci riser­vandosi una parte assolutamente muta. E allora anche il ger­go ha nel suo testo un'importanza primaria; ma il gergo purtroppo è quasi sempre intraducibile o lo è malamente se si ri­corre a quegli pseudo-equivalenti dialettali, che però introdu­cono la connotazione d'un clima, d'una cultura del tutto estranei all'originale.

E che dire e che fare di fronte all'altra, ancor più azzardata ma importante, impresa che qui compie Sorokin: il tentativo di darci non solo la naturalità del discorso nella sua semanti­ca, ma anche nella sua fonetica. II discorso non è fatto sem­plicemente di parole, bensì anche di silenzi, fonemi inintelli­gibili, sospiri, interiezioni, ecc., che non meno delle parole ne costituiscono solitamente la struttura. Nessuno parla - come si dice - come un libro stampato, e, semmai, in occa­sioni speciali, non certo fra amici o comunque in privato. Ognuno di noi si sentirebbe non solo ridicolo, ma defraudato di basilari possibilità comunicative ed espressive. Di questi elementi del discorso la linguistica ha cominciato a occupar­si non da molto tempo; all'università della California, li stu­dia il russo americanizzato Emanuel Schegloff, che definisce le sue ricerche conversation analysis. Vladimir Sorokin è forse il primo scrittore che impiega questi elementi come mat­toni dell'edificio narrativo. Intendiamoci, la letteratura non li ha mai ignorati, ma essi vi appaiono come eccezioni rarissi­me, quasi come espedienti per esprimere ciò che, le parole non sanno più dire. Sorokin, invece, ci costruisce il racconto; e, sembra, con esito non disprezzabile. Ciò naturalmente ove la materia lo consenta e, in particolare, in quella prova di bravura che è la sequenza sessuale alla fine del libro. Qui, per una decina e più di pagine, i mugolii, i gemiti, i suoni in­distinti sono obbligati a raccontare. Da essi il lettore deve in­tendere ciò che accade; e che è scandito in modo preciso, se­condo un ritmo scelto dall'autore. II quale, con questi stru­menti, con la riproduzione dell'espressione fonetica extra­semantica e con l’uso di nomignoli ovvi e ricorrenti, ha volu­to anche offrirci un nuovo modello di quella spersonalizza­zione e banalità che affliggono i componenti della coda in pubblico come nell'intimità. Così si chiude il libro: con que­sta straordinaria ma illusoria scena d'amore tra un gagliardo che può indifferentemente essere un paren' russo o un boy sta­tunitense, e una donna diversa da lui solo per l'età, dove lui si distingue da lei solo perché l'accento dei sospiri è ascen­dente e acuto anziché discendente e modulato, dove le colon­ne si ribaltano secondo le posizioni; dove, infine, tutto per Vadim si vanifica al mattino sotto la perdurante angoscia della coda.

La quale, fuori, continua. Continuerà lì e altrove senza sa­pere che cosa otterrà: è un'attesa senza fine, ma anche una speranza, perché nessuno attende se non ha un minimo di speranza nella sua attesa. Forse, aspettando, qualcosa arrive­rà; durante l'attesa stessa accadono cose, magari mutamenti.

Giugno 1987

Pietro Zveteremich

II testo di questa postfazione è apparso come introduzione alla prima edizione italiana di La coda (Guanda, 1988).  

 


[i] Oggi, dopo che Iosif Brodskij ha avuto il premio Nobel per la poesia, qualcosa di lui è uscito e altro uscirà. Nel 1972, costretto a emigrare dopo il lager come «parassita», egli scriveva: «I poeti ritornano sempre: o di persona o sulla carta».

[ii] I. Compton-Burnett, Madre o figlio, Milano 1973, pp. 1, 2.

[iii] P. Vajl'-A. Genis, Sloslagatel'noe naklonenie istorii, «Grani», Frankfurt/M., 1986, N. 139, p. 156.

[iv] Ivi, p.157.

[v] B. Pasternak, Il Dottor Zivago, Milano 1963, p. 399. 181

[vi] A. Jacoviello, Lettere dalla nuova Russia, Milano 1987, p. 286