Pietro A. Zveteremich

Aggiornata il 29 Maggio 2009  •  1 Commenti

Il fondo mai aperto

A colloquio con la figlia Erica


Sono ormai passati più di dieci anni da quando sedici grossi scatoloni arrivarono da Roma all’indirizzo dell’Università di Messina. Contenevano le carte e i libri tra i quali aveva trascorso una vita Pietro Antonio Zveteremich. Ebbene quegli scatoloni, aperti, richiusi, rifatti, sono rimasti tali. Cioè scatoloni in attesa di liberare un patrimonio che sembra ce la mettano tutta a tenere imballati.

Stufi di voci incerte, indeterminate e vagamente speranzose o al contrario disperatamente pessimistiche, siamo andati a trovare a Roma chi si fece autore (per desiderio del padre) di quella donazione così “audace”, Erica Zveteremich, figlia dell’eminente slavista.

La signora Erica ci accoglie con calore e chiede subito se abbiamo qualche novità su quegli scatoloni. Sembrerebbe strano che proprio lei, parte in causa, lo chieda a noi, dei semplici giornalisti. Ma in realtà quello che vuole sapere è l’aria che tira in quella città, in quell’Università, scelta da suo padre come sede della attività di docenza: Messina. Lo fa per cercare di capire, di capirci qualcosa di come si riesca a perdere così tanto tempo, lì dove la logica, quella della valenza culturale, avrebbe fatto in modo di accelerare quanto più è possibile i tempi.

Le raccontiamo, cercando di essere francamente obiettivi, le vicende della città degli ultimi anni e allora l’illogico trova un posto , quasi naturale, in un luogo che sembra abbia scelto come motto del suo sviluppo, quello dell’antisviluppo: facciamoci del male. Gli esempi non mancano e l’uno tira l’altro; ma noi siamo lì per raccogliere la sua testimonianza. E la incalziamo con domande su luoghi, date, lettere, cifre che possano chiarirci almeno i contorni dell’assurdo. Per un strano gioco del destino P. Zvetermich ha dedicato molta parte della sua attività di traduttore e critico al filone grottesco, paradossale, assurdo della letteratura russa e forse da “lassù” ci scriverebbe volentieri una resoconto in stile sulla vicenda. Eh sì perché è sempre meglio ridere, sorridere che piangere e strapparsi le vesti. Cosa pensare infatti del lungo periodo di silenzio che intercorre tra il ’96, anno dell’atto giuridico finale di donazione e il 2002. Solo qualche lettera in cui gli eredi Zveteremich (ricordiamo anche la moglie Dina Rinaldi, scomparsa nel 1997 ) chiedono gentilmente alle nostre autorità universitarie che fine abbia fatto il lascito. Le risposte sono altrettanto gentili, ma di cortesia, di prese di impegno generiche.

Poi all’improvviso un abbaglio, l’annuncio della Facoltà di Lettere di voler celebrare il decennale della morte dello slavista con un congresso nazionale ed inaugurare in quell’occasione il Fondo P. A. Zvetermich. Ottimo o meglio ottime intenzioni che non fanno i conti con la realtà e cioè che si deve partire totalmente da zero, dalla scelta dell’ubicazione del Fondo fino ad arrivare alla catalogazione, peraltro non semplice per la massiccia presenza di manoscritti, note, corrispondenza, appunti spesso senza riferimenti precisi e in lingua russa.

Dopo il primo entusiasmo, si fa strada la consapevolezza che il Fondo non potrà aprire entro i termini fissati per il congresso. A questo punto non rimane altra strada per la figlia dello slavista di quella di opporre un deciso niet anche al congresso: prima di celebrare e/o autocelebrarsi, c’è una volontà precisa da rispettare (quella che condizionava la donazione alla sua fruibilità) senza la quale, dopo due lustri, il congresso si svuoterebbe totalmente del suo significato e suonerebbe come una beffa nei confronti di chi quel Fondo da anni attende di poter consultare.

E visto che le lettere personali non avevano sortito alcun effetto, la Zveteremich decide di affidare ad un avvocato l’invio di una nuova lettera di sollecito, Chissà forse le parole di un uomo di legge avranno più effetto di quelle di un comune mortale. La reazione dell’Università non si fa attendere e trova espressione nell’azione del preside della Facoltà di Lettere, prof. Cupaiolo, che in un colloquio personale rassicura la figlia dello slavista, e prende un impegno deciso: entro il prossimo anno accademico [cioè questo in corso] il Fondo vedrà finalmente la luce. C’è solo da augurarselo, visto che sembra essere stato definito almeno il locale. Ma intanto le casse giacciono ancora chiuse nei locali del C.U.S., dopo essere scampate ai calcinacci della ristrutturazione dell’ex Facoltà di Magistero (prima sede del lascito).

La signora Erica si mostra preoccupata per il rischio deterioramento a cui potrebbero andare incontro soprattutto i manoscritti e desidererebbe inoltre che il Fondo, una volta disimballato, fosse reso subito fruibile: i tempi di una catalogazione seria sono lunghi; ma intanto deve essere data allo studioso una possibilità di accesso e di utilizzo almeno parziale. Non si può più attendere.

La pazienza è finita? No, Messina rimane la sede ideale di questo patrimonio, ma “se proprio ci costringete –ci fa intendere la Zveteremich- dovremo incominciare a prendere in seria considerazione le proposte di “ospitalità” giunteci per il fondo da altre università”. Niente di più legittimo e logico –pensiamo noi. Ora tocca ai messinesi mostrare un po’ di orgoglio.

Gabriele Gottardi


da “Centonove” del 26/3/2004