ONEGIN

di Aleksandr Sergeyevich Pushkin

Introduzione all'Onegin


Tropinin - Ritratto di A. S. Puškin (particolare)Perché una nuova versione dell’Onegin, a trent’anni da quella in versi di Giovanni Giudici, a venti da quella in prosa di Eridano Bazzarelli? Potrei rispondere semplicemente perché a questo mondo non si è mai contenti di nulla, e forse sarebbe la ragione più valida, seguita dall’emulazione, dalla vanità del non così ma cosà, dal piacere di comunicare agli altri le emozioni che un capolavoro del genere (considerato la gemma più preziosa delle lettere russe) suscitò in me fin dalla prima,  stentatissima – da autodidatta della lingua – decifrazione dell’originale. In particolare rimasi affascinato dall’acqua, di questa gemma: dalla limpidezza, la trasparenza, la levità con cui il racconto si snoda, di verso in verso, di capitolo in capitolo, senza un attimo di cedimento, ingabbiato com’è nella ferrea struttura della strofa – una specie di sonetto all’inglese, a rime obbligate abab ccdd effe gg – un miracolo formale insomma, che non basta certo, però, a spiegare l’emozione che la lettura, e propriamente il suono, il ritmo, la cadenza del verso comunica, e che nessuna versione in prosa potrà mai rendere: perché, come esprimere – se non col verso – la concisione, la fermezza, l’inappellabilità da sentenza di Cassazione delle due righe con cui Tatiana liquida Onegin?

No jà drugòmu òtdanà;

Ja bùdu vèk emù vernà.

Ecco già una buona ragione per cui propongo questo mio lavoro al lettore italiano; il quale da una scorrevole e nitida prosa è messo sì a conoscenza di quello che Tatiana dice:

Ma sono stata data a un altro,

E gli sarò per sempre fedele.

ma non di come lo dice. Il come può dirlo solo il testo originale, o una traduzione in versi. Ed è il nòcciolo, questo (del come e non del cosa), non solo d’ogni possibile traduzione dell’Onegin, ma del romanzo in sé: riguarda cioè lo stesso lettore russo, perché, siamo poi così sicuri che al Poeta interessi raccontare una storia d’amore, più o meno infelice? Pare proprio di no: non c’è romanzo, penso, in tutta la letteratura mondiale, scritto in modo così dispersivo, svagato, zingaresco, in cui ogni momento è buono per partire per la tangente, per fare una digressione filosofica o, più spesso, due chiacchiere con l’amico lettore sui piedini delle donne, sul pessimo stato delle strade russe, o sulla nevicata del 3 gennaio scorso. Il tutto trasformato in oro puro, quanto a sensazioni, a impressioni (visive, uditive, olfattive) che si fissano per sempre nella memoria – come, per esempio, nella strofa 1, XXXV: la città che si sveglia al rullo del tamburo, il fumo che sale dai camini in colonne blu, il fornaio tedesco che s’affaccia, puntuale, col suo cappellino di carta, allo sportello della bottega, la neve mattutina che scricchiola sotto il passo sollecito della lattaia finnica. L’amore Tatiana-Onegin qui importa quanto l’amore divino in un presepe napoletano.      

 

E dunque: il suono, il ritmo, la metrica. Ma quale verso abbiamo in italiano da contrapporre alla tetrapodia giambica russa? Non certo l’endecasillabo (utilizzato dal Lo Gatto nella sua pur eccellente traduzione): adattissimo a trasporre la pentapodia giambica – quella dei sonetti scespiriani, tanto per intenderci – conta però dieci e passa sillabe, le cui cinque battute rallentano, appesantiscono il passo spedito del metro russo:

Vdovy Klikò ilì Moèta

blagòslovènnojé vinò

Il benedetto vino della vedova Cliquot o di Moet”. Come affidare questo distico a due endecasillabi? Ne verrebbe fuori un articolo di Veronelli. E men che mai lo affideremo al decasillabo, verso svelto e musicalissimo,

Non più andrai farfallone amoroso.

Giovinette che fate all’amore.

Madamina il catalogo è questo

ma, ahimé, di solo tre battute – per di più quasi sempre anapestiche; idem, al novenario, che pure equivarrebbe per quantità di sillabe alla tetrapodia: ma anche il novenario ha solo tre battute: zoppica, ogni tre passi si ferma a respirare, il nostro verso fin-de-siècle:

Errai nell’oblio della valle

tra ciuffi di stipe fiorite

tra quercie rigonfie di galle;

Non rimane che l’ottonario, l’unico metro italiano che arriva a fine rigo in quattro agili balzi. Usatissimo in passato - anche da molti contemporanei del Nostro -

Bell’Italia, amate sponde.

O mia musa! O mia compagna.

                            Sotto i pioppi della Dora.

parrebbe oggi più adatto a ‘veicolare’ un qualche Pinocchio che non quella summa di scettico vitalismo, appassionato realismo e tragico fatalismo che è l’Onegin (“te lo pubblico sul Corriere dei Piccoli”, ebbe a dirmi difatti Enzo Siciliano, scherzando); in più rende una sillaba al metro russo: sette/otto contro le otto/nove della tetrapodia, per cui è stato e sarà spesso arduo mantenere la struttura strofica, restare cioè nei 14 versi del sonetto. Ma tant’è: decidi tu lettore, del risultato.

 

Fiornando Gabbrielli, dicembre 2006.